Vini piemontesi tra storia e curiosità! – L’autunno. – Riccio docet! – San Francesco Benne in festa! – Gratitudine! – Arrembato o arrembaggio! – Quod non fecerunt …LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Vini piemontesi tra storia e curiosità!
Il Piemonte è terra di ottimi vini noti in tutto il mondo. Ma Vi siete mai domandati da dove deriva il loro nome? Che cerca di dare una spiegazione dell’origine dei vini piemontesi. Inizio con il Barolo, il nome deriva da Villa Barogly, il nome con cui fu indicato nel 1200 il castello di Barolo. La sua produzione fu iniziata agli inzi dell’Ottocento dai marchesi Falletti di Barolo, la marchesa ne offrì 300 carrà, botti da carro, al re Carlo Alberto, che apprezzò tanto da voler acquistare un proprio vitigno. Il Dolcetto tra il suo nome dalla radice della parola doset che voleva dire collina, perché è buonissimo ma non dolce. La Barbera, vino declinato rigorosamente al femminile, trae origine dalla chiesa di S.Evasio a Casale tra il 1246. In quel tempo i canonici affittavano lotti di 4 campi ai contadini, affinché fossero lavorati e vi fossero collocate piante “de bonis vitibus Berbexinis”, ovvero di viti berbesine, specie di uva coltivata nella zona fin da prima dell’anno Mille da dove derivano anche i cognomi piemontesi come Barbero, Barberi e Barberis. Secondo altri l’etimologia del nome Barbera pare che derivi dal nome vinum berberis, un succo fermentato di bacche selvatiche prodotte dalla pianta detta Crespino, Berberis Vulgaris, anticamente consumato a Nord delle Alpi, ma che godette di buona fama nel Piemonte tardo-medievale per le supposte proprietà terapeutiche. Infine altri ancora collegano il nome del vitigno Barbera al latino medievale Barberus nel significato di irruente, aggressivo, indomito, con allusione al carattere forte, rude, del vino che si ricava da queste uve. In antichi documenti viene citato il vitigno della Barbera con il nome di Grisa, Grisola cioè Uva Grigia), accomunando così il vitigno all’uva spina per la spiccata nota acida. Arneis, il nome del vitigno ha un’origine incerta, secondo alcuni deriva direttamente dal nome del monte Renesio, Renexij, altura posta a guardia dei vitigni della zona di Canale d’Alba, secondo altri deriva dal termine piemontese “arneis” o “arnais” che significa burbero, scontroso, simile al il carattere di questo vino che è originario di Canale d’Alba. Barbaresco, questo vitigno prende il nome dal Comune di Barbaresco in provincia di Cuneo. Qui anticamente abitavano popolazioni celtiche liguri, circondati da un bosco, quando i Romani colonizzarono il territorio, abbatterono l’antico bosco, dissodarono la terra e lo fecero coltivare a uva, il cui nome deriva proprio dalla barbarica silva, il bosco dei barbari antecedenti ai Romani. Le uve del vitigno nebbiolo sono usate per barbera e barolo, ma anche per un vino che porta lo stesso nome. Quanto al nome, due le ipotesi principali, entrambe collegate alla nebbia o per definire l’aspetto dell’acino, scuro, ma appannato, annebbiato, o forse per indicare la maturazione molto tardiva delle uve, che porta spesso a vendemmiare nel periodo delle nebbie autunnali. Dalla chiesa di San Roc, Rocco di Castagnole Monferrato dove è originario il vitigno Ruché, oppure tra il nome dalla rocca ben soleggiata che ospitava le prime vigne. Per l’origine del nome Grignolino vino che deriva anch’esso dalle viti berbesine del Monferrato da una parte l’ipotesi che deriva dalla parola piemontese astigiana grignole, per indicare i semi nell’acino, numerosi in questa varietà. Dall’altra, ma sempre con riferimento al dialettale piemontese astigiano, grignare, che significa ridere, l’effetto di allegria che induce un bicchiere di questo vino. Storicamente, la prima volta che il nome del vino Freisa risale al 1517, quando ne furono registrate delle casse all’ingresso della dogana di Pancalieri, le botti di fresearum, erano tra i vini nobili, e il prezzo era il doppio del vino normale. Pare che il nome derivi dalla parola francese fraise, con il significato di fragola, il cui aroma si percepisce gustando un bicchiere di Freisa. Il vino detto di Ghemme è originario del Novarese, in particolare proprio del Comune di Ghemme. Pare che la prima testimonianza di questo vino sia un’iscrizione romana sulla lapide di Vibia Earina, di proprietà di Vibio Crispo, senatore romano ai tempi dell’imperatore Tiberio. I Romani possedevano in queste terre delle vigne modello che coltivavano seguendo regole stabilite in tutte le fasi di produzione. Il nome latino della località, Pagus Agamium, fa invece riferimento agli Agamini, popolazione celtica che viveva qui prima dei Romani. Dal muschio al Moscato, il vitigno e il vino moscato hanno un’origine molto lontana, addirittura dal bacino Mediterraneo medio orientale. Furono gli antichi Greci a portare questo vitigno nella Magna Grecia italiana, mentre successivamente i Veneziani lo hanno diffuso nel nord italiano ed europeo. Il nome di questo vino non deriva pare che derivi dal muschio, per via dell’aroma appunto muschiato che sprigiona. Nel citare i vari vini piemontesi non possiamo dimenticare il Canavesano, in particolare di Caluso, Erbaluce che ha una storia che risale dal lontano 1606, quando fu nominato in un libro di Giovan Battista Croce, gioielliere presso il duca Carlo Emanuele I. Il nome di questo vitigno deriva dal colore che assumo gli acini in autunno, riflessi rosati e caldi si fanno più intensi, ambrati, nelle parti esposte al sole. L’origine del nome Bonarda è incerta. Secondo alcuni autori, il nome deriverebbe dal patronimico longobardo Bono con l’aggiunta di hard, che in longobardo significava, coraggioso e forte. Questa supposizione si basa sul fatto che i Longobardi ebbero come capitale Pavia, con estensione del loro dominio anche in Oltrepò. Il vino Oltrepò Bonarda si ottiene da uva Croatina, la cui etimologia deriverebbe da, croatta, cravatta, e starebbe a indicare che il vino ottenuto da Croatina si beveva nei giorni di festa, quando appunto veniva indossata la cravatta. Concludo con il Cortese di Gavi, Corteis, in Piemontese uno dei vini bianchi più antichi e noti. La sua origine risale al Medioevo, e precisamente al 972, quando il primo documento storico ne testimoniò la produzione, pare che il nome derivi dal Comune alessandrino e l’etimologia rimanda a un’antica lingua ligure in cui Ga, terra e Va, buca, per indicare un territorio ricco di grotte.
Favria, 17.09.2019 Giorgio Cortese

Dimenticare come zappare la terra e curare il terreno significa dimenticare noi stessi.

L’autunno.
L’autunno è simile ad una allegoria delle mie umane inquietudini perché non rinuncio a conoscerne altre, ad amarle nonostante tutto. I colori smaglianti degli alberi, in dissolvenza, mi invitano al piacere e al privilegio di goderne la bellezza e anche se nell’animo insorge il bisogno di ripensare al cammino intrapreso. Certo questo periodo dell’anno genera voglia di scrivere con l’attesa del vino novello si riaccendono ancestrali echi dionisiaci, sensi e umori assopiti. Che bello l’autunno!
Favria, 18.09.2019 Giorgio Cortese

La vita ogni giorno non è decorata da un nastro ma è comunque un regalo. Viviamola bene!

Riccio docet!
Nella campagna favriese mia moglie portando a passeggio l’anziano genitore sulla sedia a rotelle ha fotografato vicino a casa un riccio famoso per i suoi aculei pungenti e per un’incredibile mossa difensiva che lo rende davvero speciale. Questo animale quando si sente in pericolo, si appallottolato su se stesso e drizza tutti gli aculei fino a diventare quasi invulnerabile. Non a caso, esiste un vecchio modo di dire, chiudersi a riccio, ispirato proprio alla straordinaria capacità di questo animale molto utile alla campagna, specie protetta dalle leggi italiane, e conduce una vita notturna. Infatti, la gran parte delle sue prede, sono molto più abbondanti durante la notte ed è strano vederlo di mattina. Nonostante che dalla foto appaia un animale impacciato e insicuro nella sua camminata, il riccio è capace di correre e di nuotare molto velocemente. Nell’Antica Roma il riccio veniva allevato per la sua carne e; inoltre il pelo aculeato del dorso veniva utilizzato per cardare la lana e e come componente dei frustini per spronare i cavalli e per svezzare i vitelli. Col tempo, la fitta copertura di aculei ha fatto sì che il riccio venisse accostato ai capelli, e c’era la credenza che le e ceneri di questi animali, mischiate alla resina ed applicate sulla testa, erano ritenute un rimedio sicuro contro la calvizie. Nell’antica Babilonia era considerato l’emblema della dea madre Isthar, e pertanto simbolo di ricchezza del raccolto, forse in virtù della somiglianza con il Sole nella posizione rannicchiata con aculei in vista. Al tempo stesso non bisogna dimenticare che è pur sempre un mammifero notturno, e quindi i simboli ad esso associati hanno a che vedere anche con la notte: dall’intuizione ai sogni profetici fino alle visioni. Gli venne attribuita particolare intelligenza dai Greci e dai Romani. Mentre in ambito cristiano si dice rappresenti l’avidità, la rabbia e l’ingordigia. Alcune leggende narrano che le streghe riuscissero a trasformarsi in ricci per succhiare il latte alle mucche. Mi viene in mente cosa scrisse il filosofo Arthur Schopenhauer: “Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.” ecco i ricci sono simili a noi esseri umani, come loro, pur muovendoci in gruppo e avendone bisogno, se ci avviciniamo troppo gli uni agli altri rischiamo di ferirci con gli “aculei”. Insomma da una parte terrorizzati dall’idea di rimanere soli ma poi scocciati dalla troppo vicinanza dei nostri simili, e allora è nella “giusta distanza reciproca” che troviamo un po’ di pace. Schopenhauer vuole dire che non dobbiamo mai a rinunciare alla nostra individualità a dispetto delle esigenze sociali, e quindi del gruppo di appartenenza. Ma è anche vero che l’unione fa la forza senza però mai perdere la mia individualità e dignità di essere umano perché ognuno di noi è unico ed inimitabile
Favria, 19.09.2019 Giorgio Cortese

Nella vita di ogni giorno è semplice rendere le cose complicate, ma è complicato renderle semplici

San Francesco Benne in festa!
Domenica 22 ci sarà la consueta Festa Patronale in onore di San Francesco fraz. di Oglianico. Alle 15,30 ci sarà la Santa Messa seguita dalla processione. Il tutto accompagnato dalla Banda musicale di Oglianico, seguirà rinfresco. Questa manifestazione religiosa-laica in onore del Santo Patrono si tiene ogni anno grazie alla collaborazione del Comitato Chiesa e del Gruppo Ricreativo San Francesco. Benne detto semplicemente G.R.S.B. che si adopera tutto l’anno vari eventi per mantenere coesa questa piccola frazione che ha una storia che merita essere raccontata. Frazione curiosa, perché S. Francesco Benne è unna enclave di Oglianico ma il suo territorio confina con Rivarolo, Favria e Rivarossa. La sua origine è antica. Nel 1409 Guitto, Giovanni di Rivara Conti di Valperga comprano dai fratelli Antonio e Giovanni di Levone parte di decime, fitti, censi loro spettanti in Favria, Oglianico e Rivarolo. Nel febbraio del 1496, il giorno 11 nel Castello di Valperga notaio Giovanni Rubeo viene redatta la costituzione roggia di Oglianico. Intorno al 1550 Favria ottiene approvazione per vendere i boschi Comuni tra cui in terreno di 150 giornate piemontesi nel bosco di Maneschi. La stranezza è che sulla base dell’atto del 1506 tali territori non potevano essere venduti a forestieri a meno che non si trattasse di persone di Oglianico, pensate che allora Favria e Oglianico erano sotto due amministrazioni e Stati diverse, Monferrato da una parte e Savoia dall’altra, e che i loro rapporti non erano mai stati amichevoli. Dal dissodare una parte del bosco di Manesco per l’agricoltura potrebbe derivare il toponimo Benne che è parola di origine celtica, con un triplice significato: cesta, capanna e carretto. Sebbene si tratti di oggetti differenti, esiste un elemento comune a tutti, se pensiamo al tipo di società e, di civiltà, che si esprimeva nel linguaggio dei progenitori Celti. Tale comunanza è data dai materiali che venivano usati per realizzare questi manufatti: il legno, le frasche, i vimini, la paglia. Se poi passiamo al piemontese, e ritroviamo il termine benna che continua a mantenere uno dei tre precedenti significato, quello di capanna, casupola di rami e paglia. Si tratta di un nome non infrequente nella toponomastica della nostra regione. Come si vede un’etimologia ragionevolmente certa, per un piccolo borgo, cresciuto là dove sorgevano povere capanne di contadini, costruite in un tempo lontano tagliando gli alberi e dissodando il terreno nei boschi dei Maneschi. Tornando alla storia di questa fazione leggiamo che nonostante tutto nel 1675 continuano le liti tra Favria e Oglianico, il motivo della lite erano i boschi di Maneschi ed in seguito alla suddivisione delle spese per il sopralluogo del funzionario ducale, interpellato per raccogliere i dati per dirimere la controversia riguardante il bosco. Nel 1920 c’è la richiesta di aggregamento della frazione S.Francesco Benne di Oglianico al Comune di Favria: “…In ultimo, visti due ricorsi diretti al Ministero dell’Interno dalla maggioranza degli elettori della frazione S.Francesco di Oglianico, con cui viene richiesta l’aggregazione di tale Frazione al Comune di Favria….” Tale evento si verificherà qualche anno dopo quando nel 1928 il Comune di Favria viene aggregato con quello di Oglianico, costituendo un’unica entità amministrativa denominata “Favria-Oglianico. Il 4 luglio del 1944 la cappella della frazione di San Francesco Benne viene elevata al rango di parrocchia come da lettera della Curia Arcivescovile del 4 luglio 1944 al Podestà del Comune di Favria: “Mi reco a dovere di significare alla S.V.I. che con Decreto Arcivescovile in data 28 u.s. GiUGNO LA Chiesa di S.Francesco della Frazione “BENNE di OGLIANICO” viene eretta in parrocchia autonoma sotto il titolo di Cura di S.FRANCESCO con l’assegnazione del sotto indicato territorio: NORD: l’antico confine tra il Comune di FAVRIA e la Borgata “S.FRANCESCO di OGLIANICO, esteso detto confine fino al Rio Manesco a nord della Cascina Vigada detta dei Fratelli Picco o Mattiolini. Ad Ovest: il Rio Manesco. SUD: il confine col Comune di FRONT (ora BARBANIA) e RIVAROSSA (ora LOMBARDORE). Ad EST:il confine col Comune di RIVAROLO CANAVESE. Detta parrocchia à incominciato a funzionare come tale il 1° corrente ed a prenderne il governo venne chiamato in qualità di – Vicario Parrocchiale – l’attuale Cappellano: il M.Rev.Sac. SilvinoBertasi. Con ogni ossequio godo professarmi della S.V.I. dev.mo” Segue la firma ed il timbro di protocollo n. 1571 del 12 luglio 1944 del Comune di FAVRIA – OGLIANICO. La Giunta Comunale subito dopo la liberazione dispone un contributo di lire 5.000 al Parroco di San Francesco Benne Don Silvio Bertasi, per la rifusione dell’unica campana, il preventivo di spesa era di lire quindicimila. Come si vede una bella storia che meritava essere raccontata.
Favria 20.09.2019 Giorgio Cortese

Un mondo senza speranza è irrespirabile.

Gratitudine!
Oggi 21 settembre è la giornata mondiale della gratitudine, istituita nel 1965 quando alla Hawaii in un incontro internazionale è emerso che sarebbe stata una buona idea avere un giorno all’anno per esprimere espressamente gratitudine e apprezzamento per le molte cose meravigliose che si trovano nel mondo! Gratitudine dal tardo latino gratitudo, ovvero grato e riconoscente. Sentimento e disposizione d’animo che comporta affetto verso chi ci ha fatto del bene, ricordo del beneficio ricevuto ed il desiderio di poterlo ricambiare. Ogni giorno noi diamo spesso per scontate proprio le cose che più meritano la nostra gratitudine. Penso che “Grazie” è la migliore preghiera che chiunque possa dire. Grazie esprime gratitudine estrema, umiltà, comprensione e quando la pronuncio provo una piacevole vibrazione nell’animo, che non ha prezzo. Purtroppo le persone insoddisfatte le riconosco subito, sono quelle che non sanno dire grazie, la loro ingratitudine è figlia della superbia che li rende tristi e rancorosi. Che bella la gratitudine, una moneta che nel darla agli altri non ci impoverisce ma anzi ci arricchisce nell’animo perché provare e gratitudine e non esprimerla è come incartare un regalo e non darlo. Ogni giorno da quando mi alzo devo ringraziare, per la vita, per la salute, per il lavoro, adesso che scrivo e vi dico a tutti grazie di avermi letto.
Favria, 21.09.2019 Giorgio Cortese

La gratitudine è la memoria del cuore, chi nella vita non ringrazia per poco, non ringrazia per molto.

Arrembato o arrembaggio!
Leggendo un libro ho trovato questa strana parola, arrembato! Arrembato significa un cavallo spossato dalla fatica e per estensione, di persona, che si trascina a stento, spossata di etimo incerto. Allora l’arrembato non può andare all’arrembaggio, atto che richiede grande agilità e forza a meno che il pirata sia zoppo può arrembare in tutti i sensi. Come si fa a sul ponte della nave nemica sciabola fra i denti se sei arrembato, che indica un portamento stanco. Come si vede in italiano ci sono due verbi arrembare con significati totalmente diversi, uno di origine navale e l’altro equino. Ma è difficile contornarne le radici comuni, visto che il loro etimo è incerto. Però si può avanzare che, in virtù di certe attestazioni genovesi del Medioevo che testimoniano un “arembarse” quale “attaccarsi”, e di analoghe attestazioni in latino che con arrembare significano appoggiare. Ma allora l’arrembare navale è per caso figlio dell’appoggio-attacco, e quello equino dell’appoggio plantare. Già perché l’arrembatura è un difetto nell’appoggiare lo zoccolo del cavallo e precisamente la parte finale della zampa, che giunge allo zoccolo, non è inclinato come dovrebbe per molleggiare il passo scattante, ma è verticale, colonnare, e causa molti problemi. Per rendere l’idea pensiamo di avere la caviglia distesa con stinco e collo del piede sulla stessa linea, e di camminarci! Il passo del cavallo arrembato è difficile, strascicato. E in un tempo in cui i problemi dei cavalli erano affari noti, e di tutti, questo arrembare è stato esteso all’andatura, al portamento delle persone che mostrino un’evidente difficoltà di movimento anche nel gestire i ruoli sia nel privato che nel pubblico.
Favria, 22.09.2019 Giorgio Cortese

Se nella vita perdo tempo nel giudicare le persone, non avrò mai il tempo per amarle!

Quod non fecerunt …
La frase latina “Quod non fecerunt Barbari, Barberini fecerunt, ciò che non fecero i barbari, l’hanno fatto i Barberini”, è una nota pasquinata, di cui sembra sia stato autore il mantovano Carlo Castelli, scritta contro il papa Urbano VIII, Maffeo Barberini, che durante il suo pontificato, 1623-1644, spogliò il Pantheon dei suoi bronzi per fare cannoni e per ornare le colonne e il baldacchino dell’altare maggiore di San Pietro. Ecco si potrebbe anche dire che “Quod non fecerunt barbari fecerunt batteri e glaciazioni”! Secondo alcuni storici il destino dell’Impero romano fu minato prima che dai barbari, che dalla nuova religione cristiana, ma dal suo stesso progresso. La rete globale di scambi metteva in circolazione anche le malattie e trovo delle analogie con la nostra società attuale globalizzata. Per le strade e le rotte marittime si muovevano non solo i popoli, idee e merci, ma anche i germi. Gli agenti patogeni viaggiavano lungo la Via della Seta o su barconi che arrivavano dalle remote sorgenti del Nilo, dal cuore dell’Africa, da dove portavano animali feroci destinati al Colosseo. Ma la stessa intesa urbanizzazione dell’impero portò non solo la civiltà ma anche agglomerati urbani sovrappopolati e malsani. Pensate che nei primi secoli dell’era cristiana a Roma, nel suo massimo periodo di urbanizzazione antica si producevano quotidianamente 45 tonnellate di escrementi umani, con una rete fognaria inadeguata, rimasta al periodo repubblicano e perciò difficile da smaltire e con inevitabili effetti sulla salute pubblica. Anche i cambiamenti climatici avrebbero già afflitto il mondo antico. Pare che l’espansione di Roma sia coincisa con un optimum climatico, caratterizzato da temperature alte e stabili che trasformò le terre governate dagli antichi romani in una gigantesca serra. Ma dal II secolo d.C. sarebbe subentrata una fase di clima più freddo ed instabile, culminata poi con una piccola glaciazione, con conseguenti carestie che avrebbe prodotto le migrazioni dei barbari alle frontiere e la loro entrata nell’impero Romano, nonostante i limes e le legioni. Questo periodo climatico deteriorato viene descritto dagli antichi storici come senectus mundi, la vecchiaia del mondo. Come si vede con buona pace dei sovranisti i muri non servono poi a tanto quando popoli affamati premono alla frontiere! Da citare la famosa peste Antonina, che pare fosse vaiolo esplosa nel 165d.C. al tempo di Marco Aurelio, che spopolò intere città, portando alla decadenza di intere provincie che con si ripresero più. Certo l’impero romano cadrà solo nel 1452 quando i turchi prenderanno Costantinopoli, ma forse il primo fattore a portare alla sua decadenza erano dei piccolissimi microbi e germi!
Favria, 23.09.2019 Giorgio Cortese

Certi giorni indosso la maschera della felicità non per proteggere me stesso, ma per proteggere la serenità di chi mi vuole bene
giorgio