VACCINAZIONE ANTINFLUENZALE PER I DONATORI DI SANGUE – L’idiotismo non è idiota. – Qui..adesso! – I numeri sono tutto nella vita! – Piccolo gesto. – Ellesponto o Dardanelli. – Io compro a Favria!…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

VACCINAZIONE ANTINFLUENZALE PER I DONATORI DI SANGUE
Si informa che è stato emesso in data 25/10/2018 il protocollo “Raccomandazioni regionali per la campagna di vaccinazione antinfluenzale stagione 2018-2019”, comprendente anche le indicazioni relative alla vaccinazione antinfluenzale gratuita per i donatori. I donatori di sangue potranno infatti ottenere la vaccinazione esibendo al medico curante il tesserino attestante la qualità di donatore. La campagna avrà inizio il prossimo 13 novembre.

L’idiotismo non è idiota.
Premetto non voglio dare dell’idiota, idiotismo significa parola, frase o pronuncia proprie di una determinata lingua, di un determinato dialetto o di un determinato ambiente sociale. Si dce anche frase idiomaticadal latino idiotismus, modo di parlare del volgo, a sua volta dal greco idiotismòs, comportamento da persona comune, in ambito retorico, parlata propria del volgo. Così ho messo le mani avanti da subito: nessun insulto gratuito. Certo se vi danno dell’idiota vi viene voglia di rispondere per le rime, ma etimologicamente la parola deriva dal greco idiotes, termine che designava il cittadino comune. Idiotismo ha la stessa radice, l’idiotismo, da parlata dell’uomo comune, diventa il modo di dire proprio di determinati lingue, dialetti o classi sociali. L’idiotismo non è dunque una vera e propria figura retorica, bensì un meccanismo linguistico che rientra nella retorica. Se dico in piemontese: “Sentissi come na barca ‘nt in bòsch”, per dire il sentirsi fuori posto o con grosse dificoltà, se viene tradotto letteralmente sentirsi come una barca nel bosco, può sembrare frase colorita, ma letteralmente non rende lo sprito idiomatico del piemontese. Ma anche Dante con la Divina Commedia mi fornisce qualcosina da aggiungere al discorso. Sappiamo bene che, nella Divina Commedia, sono utilizzati diversi stili, da quello più basso a quello più alto in base alle esigenze dei vari momenti del racconto. el canto XIII dell’Inferno, in cui si racconta la sorte di suicidi e scialacquatori, leggo: “Ed ecco due dalla sinistra costa, / nudi e graffiati, fuggendo sì forte, / che della selva rompieno ogni rosta». Tutto comprensibile a tutti quelli del quattordicesimo secolo, ma rosta cosa vuole dire? Rosta significa riparo, e allora questo termine era comprensibile dagli abitanti della pianura, ma non da quelli delle montagne, inserendo quindi la parola “rosta” nella categoria degli idiotismi in Dante. Infine in Albione un suo abitante vi dice prima di iniziare una corsa: “break a leg”, non vuole dire di rompervi una gamba, ma il barbaro Vi sta solo augurando buona fortuna e allora non rispondete con: “balengo!”.
Favria 14.11.2018 Giorgio Cortese

La mia felicità è nel bene che cerco di fare, nella gioia cerco di diffondere, nel sorriso che mi sforzo di fare fiorire ma anche nellee lacrime che mi sforzo di aciugare.

Qui..adesso!
In questi giorni leggo un libro sulla figura di Pericle, di Vincent Azoulay edito da Einaudi, 300pp. Euro30. Pericle, politico, oratore e militare, attivo durante il periodo più florido di Atene, quell’arco di tempo a cavallo tra le guerre Persiane e la guerra del Peloponneso, promosse le arti e la letteratura facendo diventare la città greca il più grande centro culturale dell’Ellade. Nel libro non potevano mancare citazioni al “Discorso di Pericle agli ateniesi”e sono andato a rileggere su altri libri il testo completo che voglio condividere. Questo discorso è meraviglioso e ricco di significato, ancora oggi attualissimo, pronunciato nel 431 a.C. in commemorazione dei caduti del primo anno della guerra del Peloponneso, riportato da Tucidide. Questo discorso mi fa comprendere che la storia non è una corsa dell’umanità verso la civiltà, lo dimostrano le cronache dei media, nello scorrere del tempo, nella storia, si possono fare molti passi indietro. Il Discorso di Pericle mi insegna che la libertà, l’onestà, la democrazia sono sempre a rischio. Non sono diritti che la nostra generazione ha ereditato da quella precedente, non sono concetti cristallizzati nel tempo, ma devono essere resi veri dall’azione di ognuno di noi, anche attraverso la denuncia, la fine della connivenza e degli occhi chiusi di fronte a corruzione, sprechi, abusi di potere, incompetenza. Si continua a parlare di crisi, di Euro e di Europa e di cosa è rimasto del glorioso passato della città stato di Atene. Un sorriso amaro e ironico mi è venuto alla mente rapportando ogni riga del passato con l’attualità: “ Qui ad Atene noi facciamo così. Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Ecco la base del concetto di democrazia è sempre stato detto come insieme di una selezione di migliori, uno più capace e migliore di noi. Ma dove sono finiti i veri democratici? Industriali come gli Olivetti, i grandi mercanti e collezionisti mecenati? Dirigenti messi al posto giusto per amicizie e compagnie di letto sostituiscono il concetto di democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così. Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento. Questo bisognerebbe ricordarcelo bene tutti, perché oltre all’eccellenza quando si è chiamati a servire lo stato e la cultura oltre alle competenze ci vuole anche l’umiltà pecuniaria. Qui ad Atene noi facciamo così.La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private. Che tristezza oggi ci dimentichiamo in fretta degli scandali correnti a favore del prossimo e più fresco, con la libertà di espressione vicina al limite del non tolleranza. Libertà di pensiero e di pensare con una propria opinione? Dove? Qui no! Quando i tagli primari si fanno alla cultura perché ritenuta superflua quando la stessa deve essere il baluardo per uno Stato che vanta tesori artistici, preparazione e competenza che via via viene a scemare togliendo la cultura dalla tv al posto di programmi sempre più trash fatti da reality più o meno fantasiosi. Il sospetto di una falsa libertà si prospetta ogni giorno di più, così come il coraggio di dire no ad opere brutte che deturpano vista e spettatori. Qui ad Atene noi facciamo così. Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso. Ecco oggi, siamo pronti ad inorridire se vediamo che nel mondo vengono deturpate delle opere d’arte, ma siamo indifferenti a chi sporca con le cartacce la strada o si scalfisce un monumento con le iniziali di chi si ama, figuriamoci al rispetto delle leggi non scritte. Qui ad Atene noi facciamo così. Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.Qui ad Atene noi facciamo così. L’ultima parte si spiega da sola, lasciando le parole così in libertà con un mio sogno di sostituire la parola Atene con Italia. Scegliendo davvero per meritocrazia, per competenza, arte, per cultura, per considerazione delle leggi e del prossimo amando nel rispetto senza costrizioni di forma, razza o differenze sessuali per essere davvero capaci di sviluppare “in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazioni” per essere aperti al mondo. Penso che oggi il discorso di Pericle merita di essere, ancora una volta, letto e riletto se pretendo da me stesso e da chi mi circonda il rispetto delle regole basilari che sono state fondate nell’antica Atene, e che mi rendono fiero di vivere in una democrazia.
Favria, 15.11.2018 Giorgio Cortese

Anche nei rapporti migliori, più amichevoli e più semplici che possono sussistere fra gli uomini, la lusinga o la lode sono necessari come il grasso è necessario alle ruote perché girino.

I numeri sono tutto nella vita!
I numeri ci sono preziosi, addirittura indispensabili:”Che ore sono? Quanto è alto? Quanto pesa?” Domande semplici, che richiedono una risposta semplice, perlopiù racchiusa in un numero. Proviamo a immaginare: che cosa potrebbe accadere a una popolazione che si ritrovasse improvvisamente senza numeri? Certo ci vorrebbe molto tempo, a meno che non siano stati cancellati anche dalla mente delle persone, oltre che dalla lingua parlata e scritta. Ma immaginiamo che siano magicamente scomparsi, allora dovremmo lottare per gestire molte delle tecnologie che ci circondano, che richiedono una certa consapevolezza di quantità precise. Ad esempio, non saremmo in grado di comunicare il tempo in modo preciso, il che avrebbe un impatto su qualsiasi altra cosa. Senza i numeri, le nostre vite sarebbero diverse e probabilmente saremmo cacciatori, raccoglitori e non industrializzati, dal momento che sia l’agricoltura che l’industrializzazione si basano sugli strumenti mentali che chiamiamo numeri. I numeri in effetti sono un’invenzione umana che di fatto ha trasformato l’evoluzione della nostra esperienza, a partire appunto da domande semplici. Secondo il filosofo greco Plotino i numeri sono prima degli oggetti, che mediante essi vengono descritti. I numeri servono a contare, ma anche a calcolare ossia ad elaborare i dati per ottenere informazioni supplementari. Pensate che il termine calcoli designava le pietre che portavano incisioni geometriche e che servivano per contare. Anche i Sumeri usavano i “calcoli” che erano sassolini sagomati. La parola “calcolo” deriva dal latino calculus, cioè sasso, da cui anche il termine italiano “calcolo”, pietruzza, che in medicina indica le concentrazioni calcaree, i sassolini che ingombrano i reni e le vie urinarie. I popoli antichi per far di conto non usavano cifre scritte ma oggetti fisici, come abachi e pallottolieri. Altri esempi di oggetti usati per il calcolo sono i quipos incas, cordicelle variamente annodate, in uso in Sud America dal XII al XIX secolo. Il limite di questi strumenti deriva dal fatto che i conti così eseguiti non hanno “memoria” ossia non permettono di ripercorrere le fasi di un calcolo per localizzare un eventuale errore, inoltre per contare è utile rappresentare graficamente i numeri, per questi motivi quasi tutte le civiltà inventarono simboli. Un altro problema è sempre stato quello di scrivere, con un numero limitato di simboli, un numero illimitato di numeri, dato che non si poteva avere un simbolo per ogni numero e così vennero inventati, in tempi diversi e presso popolazioni diverse, molti sistemi di numerazione. I più antichi concetti di numero si possono riscontrare nella lingua inglese odierna dove i vocaboli “eleven” e “twelve” significavano, in origine, “uno in più” e “due in più”. I numeri servivano alla misurazione del tempo, ai primi commerci ed anche a misurare per cui furono usati per risolvere problemi legati all’attività agricola. Si suppone che da questo e da osservazioni di fatti naturali siano nate le prime intuizioni geometriche. Come detto i primi numeri scritti che noi conosciamo sono quelli che furono usati circa 5000 anni a.C. dagli Egiziani e dai Sumeri. I Sumeri organizzarono il loro sistema di numerazione a base di 60, gli Egiziani avevano un sistema di cifre con cui potevano superare il milione. Anche i simboli del nuovo tipo di scrittura, che fu chiamata ieratica, erano diversi dai precedenti della scrittura geroglifica. L’invenzione dell’alfabeto portò molte civiltà, come quella greca e quella ebraica, ad utilizzare le lettere per rappresentare i numeri. In Grecia, a partire dal V secolo a.C., si sviluppò una scrittura che adoperava, per indicare i numeri, le 24 lettere dell’alfabeto, con l’aggiunta di tre segni ausiliari presi a prestito da alfabeti di altre lingue, come, per esempio, il “vav” semitico, poi caduto in disuso. I Greci non usavano lo zero e il loro sistema era troppo complicato per permettere di eseguire calcoli con scioltezza, specialmente la moltiplicazione e la divisione richiedevano un lavoro faticoso. I Maya la cui civiltà si sviluppò nel Sud del Messico e nell’America centrale circa 5000 anni fa, usarono uno dei sistemi di numerazione più interessanti dell’antichità e il loro sistema di numerazione, che si ispirava al calendario, era a base 20. Matematici abilissimi, conoscevano il concetto di zero, cioè di un numero che indica la quantità nulla, e lo rappresentavano con un simbolo speciale, un occhio stilizzato: ovale. I Cinesi avevano tre sistemi di calcolo sempre a base 10. Anche i Romani, per scrivere i numeri, utilizzarono le lettere del loro alfabeto: I, un dito, corrispondeva a una unità; II, a due unità; V, la mano aperta, indicava cinque unità; VI, cinque unità più uno; X, entrambe le mani aperte, significava dieci unità e anche loro ignoravano lo zero ed il suo uso. Agli Indiani si deve l’invenzione del sistema di numerazione decimale portato in occidente dagli arabi. Il nostro sistema di numerazione, il sistema decimale o a base 10, fu importato in Europa da Leonardo Fibonacci nel 1223, che in “Liber Abaci” spiega questo nuovo modo di scrivere i numeri, già in uso presso gli Arabi e appreso dagli Arabi stessi in India, e denominato perciò indo-arabico, pwnsate che il nome zero deriva da “zefiro”, dolce venticello. Gli storici pensano che questo sistema di numerazione abbia raggiunto lo sviluppo finale, con l’uso dello zero e la sua forma posizionale, tra il 400 e il 700 d.C., cioè soltanto 1500 anni fa. Si serve di dieci simboli fondamentali: 0, 1, 2 ,3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, che si chiamano cifre e con i quali si può scrivere qualunque numero, anche molto grande. Numeri non sono una invenzione dell’umanità, sono una scoperta, esistevano già in modo del tutto indipendente sa noi esseri umani. I numeri sono un linguaggio che tutti noi dobbiamo parlare ogni giorno della nostra vita. Secondo le stime fatte dai glottologi al mondo si parlano circa 1500 lingue diverse e questa molteplicità di idiomi è un ostacolo, anche se non è l’unica causa, per una maggiore collaborazione fra i popoli. Negli anni sono stati fatti molti tentativi di inventare una nuova lingua che potesse essere universale, la più famosa è l’esperanto che fu ideata dall’oculista polacco Leizer L. Zamenhof nel 1887. Tuttavia si può asserire che la lingua utilizzata con maggior successo a livello mondiale è la matematica, grazie ad essa l’umanità ha conquistato cose che un tempo apparivano irraggiungibili come il volo aereo, l’elettricità, la conquista dello spazio, e l’energia nucleare. Penso che le equazioni possono essere paragonate alla poesia in quanto trasmettono informazioni in tempi relativamente brevi ma è impossibile apprezzarne la bellezza se non la si capisce, ossia se non si capisce il linguaggio con cui sono scritti. Come la poesia ci aiuta a sondare dentro di noi, così la matematica ci aiuta a vedere molto al di là di noi stessi, ci aiuta a sondare, se non proprio a capire, i misteri dell’invisibile, a esplorare i margini dell’universo e anche per capire a che punto è la notte della grande crisi e se il giorno che viene potrà davvero riaccendere il sole su una “risalita”, speriamo!
Favria, 16.11.2018 Giorgio Cortese

Nel carro della vita c’è sempre una ruota che vorrebbe volare e una ruota che vorrebbe fermarsi a sentire l’odore della terra e sfortunato è quel carro che ha solo ruote che girano in modo puntuale

Piccolo gesto.
Lo chiamano un’piccolo gesto di attenzione verso gli altri. Ma la gentilezza, parola che esiste in tutte le lingue e con mille sinonimi, dall’amabilidad dello spagnolo, alla mitzvah dell’ebraico, che vuol dire precetto o buona azione, non è solo un piccolo gesto
Favria 17.11.2018 Giorgio Cortese

Ogni giorno non mi scoraggio, perchè ogni tentativo sbagliato scartato è un altro passo avanti. L’unico capolavoro è vivere e per questo non rincorro mai chi non vuole essere rincorso
Ellesponto o Dardanelli.
Ellesponto, chiamato anche nella letteratura classica Hellespontus, Hellespontium Pelagus, Rectum Hellesponticum e Fretum Hellesponticum, è l’antico nome dato dai greci alla zona attorno all’attuale stretto dei Dardanelli, braccio di mare che divide il Mar Egeo dal Mar di Marmara, Propontide, e dal Mar Nero, Ponto Eusino, comprende sia una parte europea a nord che una asiatica a sud dello stretto. Il suo nome, che letteralmente significa, mare di Elle e deriva da un mito. Nella mitologia greca, Elle e Frisso erano i figli di Atamante, re di Orcomeno, e di Nefele, la dea delle nubi. Dopo aver fatto nascere i due fratelli, Atamante si innamorò di una donna mortale, di nome Ino, e la sposò. Nefele, ripudiata, se ne tornò in cielo, e la maledizione cadde sulla casa di Atamante: i suoi figli avuti dalla prima moglie erano odiati da Ino, che giunse così a convincere il marito che la terribile carestia che aveva colpito da qualche tempo le loro terre potesse cessare solamente quando il re avrebbe sacrificato i figli, Elle e Frisso. Il re decise di fare così, per accontentare la moglie e placare la carestia. Ma mente stava per sacrificare i figli, Nefele, la loro madre, accorse dal cielo con un montone che poteva volare e li salvò all’ultimo momento. In conseguenza alla loro cattiveria, Atamanto e Ino vennero puniti ed impazzirono. Il re uccise il figlio, Learco; poi venne detronizzato e fuggì in Tessaglia dove morì povero. Invece Uno si gettò in mare col figlio Melicerte. Gli dei, impietositi, trasformarono madre e figlio in due divinità marine. Invece Elle e Frisso vennero portati dal montone nella Colchide. Purtroppo però durante il volo Elle perse l’equilibrio e cadde in mare: vi morì, e da allora quel luogo si chiama Ellesponto. Invece Frisso una volta giunto a terra sacrificò il montone e prese il vello d’oro, che regalò al re della Colchide, Eeta e ne sposò la figlia. Il vello d’oro venne offerto al dio Ares appesa ad un faggio nel bosco sacro a guardia del quale fu posto un terribile drago che vegliava sul tesoro giorno e notte. Li successivamnte anrrivarono gli argonauti, ma questa è un’altra storia. Lo stretto in questione, tuttavia, è anche chiamato “dei Dardanelli”. Anche in questo caso il toponimo ha origini mitiche. Il riferimento questa volta è a Dardano, figlio di Zeus, mitico fondatore della Dardania, una regione dell’attuale Turchia che si affacciava sullo stretto, i cui discendenti fondarono poi Troia, stando alla versione tramandata da Omero nell’Iliade. Il poeta latino Virgilio, invece, per giustificare l’arrivo del troiano Enea nella penisola italica e la conseguente fondazione dell’impero romano, narra che in realtà Dardano era originario dell’Etruria e che in un’epoca antichissima si sia spostato nella troade, Turchia, dove fondò Troia; ecco perché, una volta distrutta la città, i superstiti vennero inviati dagli dèi a raggiungere la penisola italica, in quanto patria del loro antico antenato.
Favria 17.11.2018 Giorgio Cortese

Per ogni giorno di sole, ci saranno giorni di pioggia, ma è la nostra attitudine che li renderà giorni di felicità o di dolore.

Io compro a Favria!
Ho deciso di comprare un paio di scarpe. Confesso di possedere solo scarpe di cuoio risuolate più volte, ma ancora lucide e comode. Sono entrato nel negozio a Favria e ho trovato delle belle calzature comode e con prezzi modici, ritengo concorrenziali con la vendita on line perché Rxxxxx, il titolare del negozio ha un valore aggiunto che non ha prezzo, l’esperienza di anni di vendita ed il calore umano di darti delle risposte e del farti provare con una olimpica pazienza scarpe su scarpe. Quando sono uscito dal negozio pensavo che anche le scarpe parlano di noi, se sono costose o no, dichiarano il nostro reddito o secondo alcuni psicologi su di un libro letto, anche il nostro aspetto emotivo e la nostra personalità. Beh io ho ho riciclato per anni le mie scarpe, oggi che sono consumate verranno  buttate, non oso immaginare il mio profilo psicologico, forse vecchiume! Il negozio, Bxxxx Calzature a Favria, significa la storia, identità e Comunità. Favria come tutti i paesi ha una ricchezza, i piccoli negozi, ed ogni ogni bottega che chiude è una perdita di competenze, di conoscenze, di valore economico e sociale, di un pezzo del tessuto di una Comunità. Se i negozi chiudono significa snaturare l’anima di un luogo e smorzare tutte le iniziative che inducono all’imprenditorialità, ma anche uccidere le attività culturali, ludiche e sportive che spesso vivono grazie agli sponsor dei negozi stessi. Il marketing negli ultimi anni ci ha definiti consum-attori, cioè consumatori sempre più protagonisti e consapevoli dei nostri acquisiti, questa consapevolezza dovrebbe farci riflettere su questi aspetti, anche perché solo apparentemente non ci riguardano. Compriamo a Favria e per le scarpe comprate da Bxxxx calzature, questa è la mia idea anche se ad ogni scarpa una camminata, ogni camminata una diversa concezione del mondo.
Favria, 18.11.2018 Giorgio Cortese
giorgioNovembre