“Titanic” sulle Alpi “della serie villaggi perduti” di Marino Pasqualone

“Titanic” sulle Alpi , Vallone del Roc (Noasca)
Certo, oggi  è molto difficile immaginare cosa voleva dire vivere a milleseicento metri di quota in borgate lontane due ore di marcia dalle strade, dai negozi, da tutto quello che già poteva offrire, in termini di comodità e di servizi, l’Italia in pieno boom economico negli anni Cinquanta del Novecento.
Eppure è quanto avveniva normalmente in numerosi angoli delle montagne tra l’Orco e la Soana: proprio mentre dalle prime televisioni in bianco e nero entrava nelle case degli italiani il luccicante mondo del consumismo, lassù, all’ombra di rupi e ghiacciai, la millenaria Civiltà Alpina consumava il suo epilogo, immersa in un mondo arcaico sopravvissuto pressoché immutato all’usura dei secoli.
Ed anche sui verdi terrazzi prativi del Vallone del Roc, ai piedi del Ciarforon, nella lunga sequela di borgate che da Varda vanno fino a Potes (Poutès), tutte situate tra i 1.500 ed i 1.600 metri di altitudine, poco più di mezzo secolo fa la presenza umana era ancora viva tutto l’anno, ed a Maison (Méson) la minuscola aula scolastica (in anni recenti restaurata) accoglieva i piccoli montanari che qui convergevano dalle frazioni vicine.
La storia di questa scuola di alta montagna è ben narrata nel prezioso libro di Angelo Paviolo <Scuole, Maestre, Alunni delle Valli Orco e Soana>: “ Quella di Maison era considerata la sede meno ambita della valle – scriveva Paviolo – sia perché era faticoso raggiungerla, sia perché si rischiavano lunghi isolamenti, sia anche perché l’edificio scolastico, che aveva affiancata una piccolissima stanza per il maestro, era veramente indegno oltre che infestato dai topi”.
Per questi motivi, come anche in altre sedi disagiate delle montagne valligiane, venivano in genere qui destinati insegnanti di prima nomina, la cui permanenza era normalmente limitata ad un solo anno scolastico.
“ Ma – scriveva ancora il professor Paviolo – don Avenatti (l’allora parroco di Noasca, ndr) afferma che i maestri arrivavano a Maison piangendo per la tristezza, e ne partivano piangendo perché sapevano di lasciare gente povera,  ma buona, gentile e comprensiva”.
D’altronde le risorse economiche a disposizione dei montanari residenti a quote altimetriche così elevate, dove la bella stagione per coltivare la terra durava pochi mesi e dove anche il castagno, “albero del pane” per generazioni di valligiani, non riusciva più a crescere e fruttificare fermandosi ai pur notevoli 1.300 metri di Fragno, erano comprensibilmente piuttosto scarse.
Principale risorsa era quindi il bestiame, tanto che negli anni Quaranta dello scorso secolo nel vallone del Roc erano allevate circa trecento mucche oltre ad innumerevoli capi di ovini e caprini.
La stagione invernale lassù era interminabile, soprattutto quando le copiose nevicate isolavano completamente le borgate anche per numerosi giorni: ed allora quel piccolo ed appartato microcosmo alpino diventava davvero un mondo a sé, necessariamente autarchico ed autosufficiente.
Come una scheggia di passato rimasta miracolosamente intatta mentre solo poche centinaia di metri più in basso il “progresso” stava velocemente cambiando tutto, travolgendo abitudini e tradizioni secolari, dialetti e modi di vivere consolidati, in un vortice sempre più avvolgente ed inarrestabile.
Ma poi nell’ultimo dopoguerra il declino si fece via via più veloce, con venti alunni alla scuola di La Mesòn negli anni quaranta, scesi a quattordici nel 1950 ed a meno di dieci all’alba degli anni sessanta: poi, nel Natale del 1963, la definitiva chiusura della piccola aula scolastica all’ombra del Gran Paradiso.
Da allora è passato mezzo secolo e, salendo all’inizio del mese di maggio, a  La Mesòn , Franden, la Mòla, la Ciaplà, Frigai e Poutés il viandante trova ad attenderlo, oltre agli stambecchi che si lasciano avvicinare senza paura grazie allo scudo del Parco Nazionale, soltanto la desolazione dell’abbandono di troppe case in sfacelo, con alcuni pregevoli affreschi murali che ormai stanno deteriorandosi, ed il silenzio di una montagna che solo d’estate vede il ritorno di alcuni margari per una fugace stagione di presenza umana, la dove un tempo neppure così lontano la vita invece pulsava intensa anche in pieno inverno.
A volte, passando tra le case delle borgate alpine abbandonate, mi capita di immaginare com’erano questi luoghi quando tutto era ancora in piedi: e, come nella memorabile sequenza finale del film “Titanic” dove il gigantesco relitto in fondo al mare a poco a poco si rianima dello splendore perduto e dei suoni e delle voci dei suoi passeggeri, ecco che davanti ai miei occhi i tetti sfondati ritornano magicamente al loro posto, rovi e sterpaglie scompaiono e le stradine e le case dei villaggi oggi perduti tornano a brulicare di uomini, donne e bambini, i prati di animali al pascolo, l’aria di voci e richiami che si rincorrono fino a sera.
Ed il sapere già quale sarà il loro destino, che, come per i passeggeri del transatlantico “inaffondabile”, è ormai stato irrimediabilmente scritto dalla Storia, rende questa scena immaginata ancora più struggente e malinconica.
“ Il futuro è già stato e non può cambiare” cantava Roberto Vecchioni, ed i tetti schiantati ed i muri sbrecciati delle case abbandonate, che mi si parano davanti agli occhi quando imbocco un sentiero un poco discosto delle valli Orco e Soana, me ne danno purtroppo ogni volta l’amara conferma.        Marino Pasqualone
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vallone del Roc
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