Specimen! – Da scafandro a palombaro, passando da sommozzatore.- Dai legionari romani a Garibaldi, le olive ascolane. – Spider!- Ad sal…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Ogni giorno cerco sempre di donare il meglio di me stesso. Quello che imparo giorno dopo giorno è che con le persone piene di rabbia basta un sorriso al posto di un volto accigliato, e di fronte ai loro beceri insulti il silenzio vale molto di più che mille parole urlate con ragione. Ma quello che è veramente importante che ogni atto di bontà anche se rifiutato non si perde nel tempo ma ritorna sempre indietro, che magnifica avventura la vita!

Specimen!
Questo strano lemma con cui convivo da 38 anni, significa saggio, campione, modello. In ufficio viene designato il modulo su cui vengono raccolte le firme del cliente. La cosa buffa è che non è inglese anche se è giunto a noi attraverso questa lingua ma dal latino spècere, guardare. Curiosamente, il termine latino specimen è stato recuperato dapprima in inglese, all’inizio del XVII secolo, e comparso poi in italiano quasi due secoli più tardi. Il significato è semplice, lo specimen è il saggio, il campione, l’esempio, il modello. In laboratorio viene analizzato uno specimen di sangue del paziente, il geologo riporta dalla missione degli interessanti specimen, e la banca, appunto, richiede di depositare uno specimen di firma con cui verificare l’autenticità delle firme successive. Verso la metà del secolo scorso, questo termine ha preso anche il significato di fascicolo contenente l’estratto di un’opera, che l’editore diffonde a fini pubblicitari. Sicuramente è un termine che vive una maggiore fortuna in ambiti specialistici, quali quello scientifico, bancario ed editoriale. Però, in virtù della versatilità del suo significato, riesce adatto anche all’uso in altri ambiti, primo fra tutti, quello commerciale, come lo specimen di tessuto che il sarto mi mostra, o agli specimen che il produttore invia al rivenditore. Una curiosità, sapete che esiste il plurale, deriva sempre dal latino, specìmina!
Favria, 24.07.2016 Giorgio Cortese .

Nella vita non servono niente le porte chiuso nell’animo perché la tristezza non può uscire e l’allegria non può entrare.

Da scafandro a palombaro, passando da sommozzatore.
Lo scafandro è una speciale attrezzatura utilizzata per le immersioni subacquee e fu inventata dall’abate francese Jean-Baptiste de La Chapelle nel 1775. Il suo nome deriva dal greco skaphe, scafo e andros, uomo. Fu la prima attrezzatura che permise all’uomo di esplorare i fondali marini, fluviali e dei laghi. Dopo i primi avventurosi tentativi, i sistemi vennero man mano perfezionati. Dopo un inizio essenzialmente militare, l’idea consisteva nell’ipotesi di potersi avvicinare di nascosto ai navigli nemici per affondarli, idea già del grande Leonardo da Vinci. Ma la complessità dell’attrezzatura ed i rischi che correva l’operatore la cui vita dipendeva dal costante rifornimento di aria da parte degli assistenti di superficie indirizzarono gli sforzi per permettere a chi operava una certa tranquillità non compatibile con operazioni militari di sabotaggio. Chi si immerge viene chiamato palombaro, un subacqueo che, per immergersi, utilizza un’apposita attrezzatura, detta scafandro da palombaro, consistente essenzialmente in elmo, tuta gommata e scarponi zavorrati per camminare sul fondo marino. Secondo alcuni il lemma palombaro deriva da “palombo” , il nome di uno dei tanti squali diffusi anche nel Mediterraneo. Una seconda versione ipotizza che palombaro possa derivare da “ palomba”. A bordo degli antichi velieri, con tale nome veniva chiamato sia il canapo dell’ancora sia il canapo per l’ormeggio. “Palombaro” era quindi, il marinaio che si immergeva, quando necessario, per liberare l’ancora sul fondo e risaliva a bordo arrampicandosi lungo la “palomba” oppure si tuffava e nuotava per portare a terra un capo della “ palomba” per permettere così l’ormeggio della nave. Tale nome sarebbe poi stato esteso, per similitudine, anche a coloro che si immergevano per lavoro. Tale versione, che si ritiene una delle più accreditabili, è supportata da diverse citazioni. La terza versione ipotizza che palombaro possa derivare dalla parola greca kolymbétes, tuffatore ” o “ nuotatore”. Ma, pur indicando questi due termini greci attività simili a quelle del moderno palombaro, non mi sembra possa esserci una logica derivazione linguistica tra queste e la nostra parola. La quarta versione ipotizza che palombaro possa derivare da “ Palombarius ” , parola tardo-latina indicante proprio il marangone, un volatile che si immergeva per pescare e dal cui nome in seguito venivano anche chiamati tutti coloro che si immergevano per lavoro. Il termine italiano deriva dal termine napoletano “sommozzare”, cioè immergere: i primi sommozzatori infatti nacquero a Napoli su iniziativa congiunta di un napoletano e di alcuni giapponesi, poco prima della Seconda guerra mondiale. Dopo la guerra, l’invenzione dell’ autorespiratori ad aria da parte di J. Cousteau e delle prime mute subacquee in schiuma di neoprene, resero questa attività molto più semplice e diffusa di quanto non fosse inizialmente. Il temine umoni rana risale al 1940, quando la figura dei sommozzatori in mute lucide e con larghe pinne, richiamava quella dell’animale. Siamo fatti per il 90 % di acqua e l’acqua per me è aria, l’ultimo respiro e comincio a nuotare immerso in un solo pensiero, il mio stile è libero come il mio sogno. E poi i gesti del nuoto sono i più simili al volo. Il mare dà alle braccia quella che l’aria offre alle ali; il nuotatore galleggia sugli abissi del fondo. Mi ricordo che da ragazzo la prima volta che ho imparato a nuotare ho compiuto degli errori, e poi altri errori senza affogare , e alcuni di loro anche più e più volte per scoprire che alla fine avevo imparato a nuotare. Nella vita di ogni giorno è come imparare a nuotare, non devo avere paura a fare degli errori, perché non c’è altro modo per imparare di come vivo ogni giorno.
Favria, 26.07.2016 Giorgio Cortese

Quando penso alla solidarietà la immagino come una barca che nel mare della vita non affonda mai perché naviga su un mare infinito fatto di mani che si stringono.

Dai legionari romani a Garibaldi, le olive ascolane.
La storia delle Olive Ascolane comincia nell’antica Roma, dove le antenate olive in salamoia rappresentavano, in virtù del loro apporto nutritivo, il pasto quotidiano dei legionari romani. Oltre alla loro bontà, la loro forma e trasportabilità, le rese un alimento ideale durante i lunghi viaggi. Il nome latino colymbades, che deriva dal greco colymbáo, “nuotare”, e si riferisce al metodo di conservazione usato all’epoca, secondo il quale le olive venivano sottoposte a diversi lavaggi e, successivamente, conservate in salamoia. In epoca romana sono molteplici gli autori che scrissero della bontà di questo piatto, tra questi Catone, Varrone, Marziale e Petronio il quale, nel Satyricon, le colloca sulle famose tavolate di Trimalcione. E gli estimatori delle olive marchigiane non si fermano di certo quì: durante il XVI secolo anche Papa Sisto V riconosce la loro prelibatezza in una lettera inviata agli Anziani di Ascoli. Mentre Garibaldi, dopo averle assaggiate e apprezzate il 25 gennaio del 1849 ad Ascoli, decise di coltivare alcune piantine di olivo a Caprera, così da poter riprodurre la Ricetta delle Olive Ascolane da sé! Per quanto riguarda la storia delle Olive Ascolane così come le conosciamo oggi, dobbiamo spostarci di qualche secolo, per la precisione nel 1800. Si dice, infatti, che fu proprio in questo periodo che i cuochi a servizio delle famiglie nobili ascolane inventarono il caratteristico ripieno delle olive. A quanto pare l’idea di un ripieno di carne parte dall’esigenza di tali cuochi di consumare le notevoli quantità e varietà di carni che avevano a disposizione. All’epoca, infatti, non esistevano ancora degli strumenti per la conservazione dei cibi e uno dei mezzi per non sprecare gli alimenti era proprio quello di riutilizzarli per ricette diverse. Pensate che la produzione delle Olive Ascolane a livello industriale cominciò, poi, nel 1875 quanto l’ingegnere ascolano Mariano Mazzocchi diede il via alla commercializzazione, e alla conseguente notorietà, del prodotto marchigiano
Favria 27.07.2016 Giorgio Cortese

Bisogna saper apprezzare la vita, del resto è composta di attimi che non torneranno più, chi fa realmente del bene disinteressato, lo riceverà sicuramente a piene mani.

Spider!
Un sabato mattina l’amico Pietro mi ha fatto ammirare la spider. Bella auto, ma il nome spider evoca nei mei pensieri divertimento, spensieratezza, strade tortuose, vento tra i capelli, ma qual è la sua vera origine? Leggendo, ad esempio, nel dizionario Treccani, trovo la seguente definizione: “Denominazione corrente di automobili, sportive o da gran turismo, prive di cappotta, o più spesso dotate di una cappotta a mantice in tela gommata, a due soli posti”. E, in merito all’etimologia del nome, si sottolinea che il termine spider e e non “spyder”, grafia impropria e comunque inesistente nella lingua inglese, significa effettivamente per chi soffrev di aracnofobia: “ragno”, “. In origine veniva chimata spider phaeton. Phaeton era una carrozza leggera, molto alta, scoperta, a due ruote molto alte e leggere in uso nell’Ottocento. Perché gli inglesi l’abbiano chiamata spider, ragno trae appunto origine di questa carrozza americana di solito utilizzate da agricoltori o allevatori benestanti. Ciò che colpisce da una foto vista su di un libro è che in queste carrozze erano le ruote grandi, alte e molto esili, dalle carreggiate allargate, per evitare i solchi dei carri agricoli, e dal molleggio “amplificato” da quattro balestre ellittiche; al centro, equidistante dalle ruote, stava la piccola cassa, molto leggera, a due posti, spesso di colore nero e talvolta dotata di “mantice” di copertura. La combinazione tra ruote grandi ed esili e corpo piccolo, nero e molleggiato ricordava visivamente l’idea di un ragno. Pare che il nome gli sia stato da una dama che ebbe ad esclamare nel vedere la carrozza: “Sembra un ragno!”, nome trasmesso ai posteri. Dagli Stati Uniti lo “spider” americano si traferì in terra inglese, dove fu ben visto dai fattori benestanti, che adottarono però alcune modifiche: una panchetta posteriore, ad esempio per ospitare un palafreniere, l’aggiunta di gomme piene alle ruote e la presenza di un secondo cavallo, già sellato per la caccia. Agile e veloce, la carrozza tipo Spider veniva principalmente utilizzata dai proprietari terrieri per spostarsi nei loro possedimenti, allo scopo di controllare i lavori agricoli, di esercitare l’attività della caccia o semplicemente rilassarsi in gite bucoliche. In forza di questi particolari utilizzi e dell’assenza di ripiani per il trasporto dei materiali, la carrozza tipo Spider divenne icona del veicolo per uso giocoso. Quello che colpisce è l’analogia tra la carrozza e le prime spider automobilistiche, che non a caso furono proprio inglesi: ruote con parafanghi staccati dal corpo vettura, esile e biposto; capote di copertura in caso di maltempo; leggerezza ed agilità. Alcuni confondono la spider con la cabriolet, abbreviato in cabrio, una vettura decappottabile, con tetto apribile, berlina a 4 posti, mentre la spider, che ha 2 soli posti. Per denominare il medesimo tipo d’automobile, gli anglofoni utilizzano l’espressione “roadster”, la prima auto ad utilizzare questa denominazione fu l’ Alfa Romeo nel 1928. Un’auto originariamente essenziale fino ad essere scomoda, e talvolta anche poco elegante, ma scelta alla fine proprio per questo: per la gioia di godere del sole e dell’aria aperta, per il gusto di vivere sportivamente ogni viaggio, per la volontà, propria di ogni spirito “giovane”, di possedere un simbolo di libertà.
Favria, 28.07.2016 Giorgio Cortese

In certi momenti della giornata sottile s’adagia il riflesso di un refolo di pensiero sul filo del discorso.

Ad sal…
La zucca è comunemente usata nella cucina di diverse culture: oltre alla polpa di zucca, se ne mangiano anche i semi, opportunamente salati. La zucca è un ortaggio che si presta a mille ricette: si consuma cucinata al forno, al vapore, nel risotto o nelle minestre, fritta nella pastella. Particolarmente famosi sono i tortelli alla mantovana, ripieni appunto dell’omonima varietà di zucca. Dai semi si ottiene un olio rossiccio usato in cosmesi e cucina tradizionale. Anche della zucca si possono usare i fiori, solamente quelli maschili, quelli cioè con il gambo, che si chiama peduncolo, sottile, che dopo l’impollinazione sono destinati ad appassire, da friggere, dopo averli impanati, come quelli delle zucchine. Nei paesi anglosassoni la zucca è utilizzata per la costruzione della Jack-o’- lantern, caratteristica lanterna rudimentale utilizzata durante la festa di Hallowen per scacciare Spiriti maligni che secondo la leggenda vagano sperduti sulla terra e si dice che se una persona o un animale posseduto da uno di questi spiriti si avvicini alla casa in cui è presente una zucca quest’ultima si illumini di un azzurro intenso e lo spirito che tenta di entrarvi viene intrappolato nella fiamma della zucca. La zucca è utilizzata non solo in cucina, ma anche in cosmesi e in medicina, la zucca viene persino usata come contenitore e come utensile. Il termine zucca deriva da “cocutia”, testa, poi trasformato in “cocuzza”, “cozuccae” e, infine, zucca. È originaria dell’America Centrale e i semi più antichi, ritrovati in Messico, risalgono al 7000-6000 a.C. Nel nord America la zucca rappresentava un alimento “base” della dieta degli Indiani e infatti i primi coloni impararono da loro a coltivarla. Insieme alla patata e al pomodoro, è stato uno dei primi ortaggi esportati dopo la scoperta dell’America. La zucca appartiene alla grande famiglia delle Cucurbitacee, molto ricca di varietà, sia per quanto riguarda la forma, che per il colore. Le specie più note sono la Cucurbita maxima, zucca dolce, e la Cucurbita moschata, zucca torta o zucca pepona, da non confondere con la Cucurbita pepo, specie cui appartengono le comuni zucchine. Nella Cucurbita maxima il “frutto”, considerato la zucca per eccellenza, ha una forma voluminosa e appiattita in alto, caratterizzata da una spessa buccia verde solcata da striature longitudinali. Generalmente è di grandi dimensioni, può arrivare a pesare anche 80 kg, mentre la Cucurbita maxima presenta una polpa di colore giallo-arancio farinosa e dolciastra. La Cucurbita moschata invece, ha una forma allungata, cilindrica, un po’ “gonfia”all’estremità, è di colore verde/arancione, di dimensioni medie ed ha una polpa dolce e tenera. In Italia, le varietà di zucche più coltivate sono la Marina di Chioggia, molto diffusa nel Nord, e la Lunga di Napoli. Dicono che la zucca è in grado di “riempire” un intero menù, dall’antipasto al dolce, poiché molte sono le sue “virtù” ed ogni piatto risulterà quindi gustoso e salutare, ma come dicevano gli antichi romani: “Ad sal, ad mel, ad piper, semper cucurbita est, col sale, col miele, col pepe, è sempre una zucca!”
Favria 29.07.2016

Certe volte le ampie ali del pensiero sono inefficaci contro la gravità della menzogna, diffusa ad arte da squallide persone nelle loro parole.