Sei infinite sfumature di ironia… – La gazza e Beccogiallo.- La pioggia d’autunno. – La vigna…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Sei infinite sfumature di ironia…
Penso che tutti siamo rimasti colpiti dal divieto che il numero massimo di ospiti in casa causa pandemia può essere sei. Già il numero sei che deriva dall’indoeuropeo sueks, in latino sex in gotico saihss. Ma poi che cosa è il sei se non il numero naturale dopo il cinque e prima del sette, è questa la sua colpa per essere indicato come numero massimo per prevenire la pandemia tra le domestiche mura? Secondo Sant’Agostino il sei è un numero perfetto di per sé, e non perché Dio ha creato il mondo in sei giorni; piuttosto è vero il contrario. Dio ha creato il mondo in sei giorni perché questo numero è perfetto, e rimarrebbe perfetto anche se l’opera dei sei giorni non fosse esistita. Forse darà per questo? Mah, mistero! Del sei si può dire che è un numero pari, e che ne derivano parecchi lemmi come esagono, senario, sestante, sesterzio, sestetto, sestina in lirica, e anche molti toponimi di città come Sesto Calende. Sesto Campano, Sesto Fiorentino, Sesto San Giovanni, Sestu. Riprendo nel dire che sei è un numero composto coi seguenti divisori 1,2,3,6 insomma un numero perfetto. Secondo i matematici il sei non è solo un numero perfetto è multiperfetto. Il sei per la geometria è il terzo numero triangolare ed il primo numero esagonale. Sicuramente per fare i difficili si può dire che è un numero strettamente non palindromo. Certo mi direte che sono sei le facce del cubo e anche sei i lati dell’esagono. E’ talmente famoso il sei che delle comete e degli asteroidi ed una galassia della costellazione di Andromeda portano questo numero nella loro sigla. In ebraico, siriaco e arabo è la sesta lettera waw che è associata al numero sei con il significato letterale di gancio, lancia e allora forse inizio a capire perché in molte squadre della Nba, pallacanestro in America, e nel calcio italiano è stato ritirato in omaggio a giocatori famosi della squadra e sei sono i giocatori di una squadra di Hochey di ghiaccio, sei sono i giocatori di una squadra di Pallavolo! Infine chi può dirmi come fanno a stare in casa per cena dopo una giornata di lavoro in miniera i sette nani? Cribbio! E si, in media stat virus….
Favria, 21.10.2020 Giorgio Cortese

Il nostro compito nella vita certi giorni non è solo di trionfare, ma di a cadere serenamente per poi rialzarci.

La gazza e Beccogiallo.
Esistono, in natura, tanti tipi di uccelli, e già vi ho narrato parecchie storie su di essi. Ma non posso proprio dimenticare due uccelli particolari, che sono piuttosto frequenti anche dalle nostre parti: la gazza ed il merlo. Il merlo, nero e col suo divertente becco giallo, che si chiama appunto Beccogiallo e la gazza, madama Pica sempre in cerca di oggetti lucenti da afferrare e rubare. Un giorno madama Pica vide Beccogiallo intendo a cacciare dei piccoli vermi nel terreno del contadino Melampo, e si accostò tutta incuriosita. Madama Pica come tutte le gazze è infatti un uccello curioso e ciarliero, tanto è vero che una donna chiacchierona viene definita una gazza. Il merlo Beccogiallo, vide la gazza madama Pica accostarsi, e un pochino si allarmò. Se ne dicevano tante di quello strano uccello, sfacciato e pasticcione, con le sue penne grigie sfumate di verde o di violetto, e Beccogiallo si preoccupò e chiese alla gazza Madama Pica perché veniva li? Dicendo che in quel campo non c’era niente per lei. Ma quella sfacciata di madama Pica rispose: “Come no? Ho visto brillare qualcosa, qui vicino, riflessi d’oro o d’argento, o anche pietre brillanti: tutto m’interessa!” Beccogiallo con sagace ironia gli rispose: “Possiedi forse una gioielleria? Strano mestiere, per un uccello. Ma che brutto, procurarsi delle cose belle solo rubandole. Io comunque non ho proprio niente che possa attirare la tua attenzione!” madama Pica rispose: “Tu no, ma qui vicino sono entrato in una casa e ho trovato aperto il portagioielli della moglie di Melampo, e ho visto scintillare spille, anelli e collane e ho portato via qualcosa per ricordo” Beccogiallo prese coraggio e con un fischio adirato le disse: “ Ma allora è proprio vero che sei una ladra, madama Pica! Ma non ti vergogni a dare un cattivo esempio ai tuoi figli? Cresceranno ladri e disonesti peggio di te!” madama Pica allora gli rispose con voce offesa che anche lui rubava i semi del contadino Melampo! E poi aggiunse: “ Sei solo uno sciocco e sai che tra gli uomini gli sciocchi vengono chiamati merli, e fanno le cose senza neanche rendersi conto di ciò che stanno facendo. E poi guarda che bel anello ho preso dalla casa di Melampo”. E nel dire questo madama Pica mostrò a Beccogiallo il suo trofeo. Allora il merlo Beccogiallo rise così forte, come solo i merli sanno fare. Madama Pica aveva rubato soltanto un anello di ottone da una tenda sfilacciata. E disse forte cosi che lo sentissero tutti gli uccelli del parco: “E poi dicono che il merlo sono io ridendo forte.” Madama Pica corse via scocciata, sicura di aver trovato un piccolo tesoro.
Favria, 23.10.2020 Giorgio Cortese

Ricordiamoci sempre che cadendo, la goccia scava la pietra, non per la sua forza, ma per la sua costanza.

La pioggia d’autunno.
Può esserci un autunno senza piogge, nebbia, foglie secche? No, naturalmente, l’autunno oggi è sinonimo di periodo di piogge, almeno nei nostri umani ricordi. Forse la la meteorologia e le stagioni sono anche qualcosa che costruiamo nella nostra memoria attraversi i ricordi. Nell’antichità l’autunno era pensato in modo diverso, per i Greci e Romani era una lunga coda dell’estate, stagione ancora ricca degli ultimi frutti maturi, non come una triste anticipazione dell’inverno, come oggi noi siamo abituati a pensarlo. Questo perché nei secoli ci sono state tante e continue variazioni climatiche, con maggior caldo nei periodi antichi di maggior caldo e periodi di freddo intenso nel primo Medioevo, e anche agli inizi dell’età moderna. Nel 590 d.C. il vescovo di Tours, scrisse di forti piogge, temporali con tuoni in autunno, di inondazioni e di una epidemia di epidemia di pestis inguinaria devastò gravemente le città della Gallia, dando una visione che tutti questi avvenimenti avessero un nesso comune, eventi meteo e epidemie, un castigo divino. Fu sicuramente un periodo storico molto freddo, con inondazioni, magri raccolti, carestie ed epidemie. Nel IX secolo le cronache ricordavano come le piogge persistenti finissero per distruggere cereali e ortaggi, o perché non vi era modo di porli al riparo o perché marcivano nei granai. I cronisti del periodo parlano come se il mondo fosse tornato al grande silenzio delle origini, quando né animali né uomini lo popolavano con nostalgia dell’antica abbondanza con gli autunni di sole, frutti e vino che erano stati cantati dai Greci e Romani. Nel IX le città erano in rovina ed i villaggi al limite della sussistenza, con la natura attraverso le foreste, paludi e brughiere che avanzavano nel paesaggio, cancellando i segni posti dagli esseri umani, tempi di fame e paura. In quei tempi il freddo e la pioggia magari non erano diversi da prima, ma forse si sentivano di più, un disastro. A partire dal X le cronache parlano di un miglioramento, le temperature incominciavano a risalire, tanto da spingere il ritorno della coltivazione della vite sino all’Inghilterra. Ma nel Quattrocento tutto tornò a cambiare, con inverni terribili e autunni sferzati dalla pioggia. E per quanto qualche anno fosse ancora buono, l’esistenza si fece più dura e incerta. Quasi ogni dieci anni una carestia, accompagnata non di rado da epidemie che decimavano senza pietà una popolazione già prostrata dalla fame, e nell’autunno tutto questo si vedeva particolarmente bene. Nel Cinquecento nei giorni di vendemmia, la produzione arrivava a stento delle rese del secolo prima con uve che davano un pessimo vino. Il problema non era solo la di vendemmia, ma le piogge torrenziali che arrivavano spesso in autunno. Nel 1591 vengono segnalate le prime nevicate, gelate e grandinate. In quel periodo le fantasie apocalittiche fiorivano un po’ ovunque, alimentate dalla sensazione diffusa che il mondo stesse davvero per finire allora qualunque tuono all’orizzonte poteva annunciare da un momento all’altro la carica dei quattro cavalieri dell’Apocalisse. Purtroppo allora nessuno aveva chiaro di come funzionassero le nuvole, bisogna aspettare nel Seicento per i primi studi scientifici per capire qualcosa della pioggia e delle nuvole, con Cartesio. Nel 1751 Edouard Le Roy, descrisse le nuvole come una sospensione d’acqua, e oggi conosciamo bene la pioggia, ma questo adesso non è abbastanza, attraversati come siamo da nuovi cambiamenti, da un clima sempre più violento, che ci fa guardare all’autunno con un misto di sentimenti, dove da una parte nel nostro animo abbiamo il sogno di quella mezza stagione. ormai perduta, e forse mai davvero per la verità esistita, e dall’altra parte con un sentimento di paura che con l’evoluzione tecnologica la pensavamo sepolta, quella di esseri umani che guardiamo alla natura impotenti di fronte alla sua forza.
Favria, 24.10.2020 Giorgio Cortese

Ciò che non ci uccide ci rende più forti.

La vigna.
La vigna abbandonata si riposa. La tramontana getta a terra i pampini bruciati dal freddo e i tralci tremano. Nella mano dura, callosa, il potatore stringe il tralcio vecchio e con le forbici lo taglia. Di filare in filare egli va, lasciando dietro di sé, sui tralci, gli occhi ciechi delle gemme che cominciano a sognare di germogliare, e tralci in terra, secchi, che calpesti crepitano, come se già sentissero la vampa del fuoco in cui fra poco bruceranno interi.
Favria, 25.10.2020 Giorgio Cortese

La chiave della vita è accettare le sfide, la vita è una opportunità da cogliere davanti ad ogni problema

Lunedì è il più piccino si chiama Cucciolo, è tanto carino! Martedì col raffreddore Eolo starnuta a tutte le ore ETCì! ETCì! ETCì! Mercoledì è grassottello si chiama Gongolo è un po’ monello. Giovedì c’è un gran sapiente si chiama Dotto non scorda niente. Venerdì c’è un nano musone si chiama Brontolo il brontolone. Sabato con il suo dolce viso ecco Mammolo ci fa un sorriso. La Domenica… che russare! è proprio Pisolo che va a riposare. Ronf… ronf… ronf… E con questa filastrocca, auguro a tutti un buon inizio di settimana!

Crivel!
Il crivel, nome in piemontese, anche se non vola appollaiato sull’alta quercia sembra immobile quando vola alto nel cielo. Quando vola il suo richiamo è un trillante ripetuto ki, ki, ki addolcito da una doppia nota più musicale ki-li. Per questo suo suono in francese viene chiamato Faucon crécerelle, in spagnolo Cernícalo vulgar, in portoghese Francelho o anche Penereiro vulgar, e in napoletano cristariéllo, in calabrese cestariéllo e in siciliano castarièddu. Tutti questi nomi compreso l’inglese krestel, sono di derivazione franco normanna e risalgono a cresselle, poi crécelle, che indica il vaglio, il telaio con rete metallica che separa materiali incoerenti dalle sementi e che nell’essere agitato produce un monotono e ripetuto suono.. In piemontese viene chiamato crivel che deriva dal latino cribellum in riferimento al movimento prolungato delle ali che ricorda il movimento del crivello. Avete capito di chi parlo? Del gheppio, Falco tinnunculus, appartiene alla famiglia dei Falconidi come indicato dallo stesso nome scientifico che deriva dal latino falcis e che significa della falce, riferendosi alla forma delle sue ali. Il nome della specie tinnunculus, invece, significa piccolo suonatore di campane, e non si riferisce ad una caratteristica fisica come la trasformazione poetica del suo stridulo verso, ma piuttosto sembra riferirsi ad un suo comportamento. Nidifica in una grande varietà di ambienti aperti e semi aperti su alberi e pareti rocciose ma anche nelle città e nelle campagne prediligendo vecchie costruzioni in pietra come ruderi e campanili. Da quest’ultimo luogo di nidificazione sembra essere derivato il suo nome scientifico ma anche il suo nome tedesco Turmfalk che significa per l’appunto falco del campanile. In danese di chiama Taarnfalk, svedese, Tornfalk ed in olandese Torenvalk, ma nessuno di questi è propriamente un campanile ma più precisamente un torrione dove l’uccello si apposta e nidifica. Pare che il gheppio prediliga posarsi in vecchi edifici di pietra, ruderi, torrioni e talvolta anche campanili, ma non si sa se Linneo si riferisse al tintinnio delle campane o allo stazionare su una torre campanaria. Sembra che il termine lo si trovi già nell’antica Roma, Columella, autore latino di agronomia del I secolo d.C., un periodo storico che esclude il riferimento al campanile come costruzione architettonica cristiana. Il greco antico usa un termine che significa, dalla voce roca, fioca, denominazione curiosa che trova un riferimento in latino quando si dice orator tinnulus per indicare un oratore dalla voce stridula, monotona, cantilenante. Come si vede in ogni lingua chiamava a suo modo molto prima della codifica che Linneo operasse una classificazione scientifica abbinandola ad un’altra di tipo più empirico e frutto dell’osservazione sul campo, gli strumenti del poeta o dell’uomo comune rimangono sempre diversi perché attingono il sapere delle esperienze di un popolo, a volte anche con elementi fantasiosi e immaginari. Pensate che in italiano il nome gheppio è ancora più fantasioso perché deriva da una radice di parola del Greco antico per indicare l’avvoltoio che ci porta alla famiglia di grandi rapaci, come il Gipeto, il Grifone, il Capovaccaio e l’Avvoltoio monaco, che in realtà sono di dimensioni molto grandi, non propriamente agili e soprattutto necrofagi, attendono cioè che la preda divenga cadavere, a differenza dei gheppi, rapaci di dimensioni medio piccole, che fanno della caccia, del lancio, della mobilità e agilità la loro caratteristica specifica. Il gheppio è celebrato nella poesia, in The hawk del poeta W.H. Davies, 1871-1940, dove si esalta una caratteristica del volo del gheppio, quella di librarsi in volo, riuscendo a rimanere perfettamente sospeso a mezz’aria sembrando quasi immobile! Questo uccello è un esperto del volo sospeso, e occupa un posto d’onore nelle opere letterarie. Viene citato persino da William Shakespeare nella: La dodicesima notte. Nella storia di Shakespeare, Tobia, eccentrico e turbolento sovvertitore delle buone regole, mette in atto un vero e proprio inganno ai danni del maggiordomo Malvolio, facendogli credere attraverso una lettera falsa che la nipote Viola ne sia innamorata. Malvolio abbocca alla burlesca missiva, un vero piatto di veleno, così come il gheppio si sarebbe avventato sulla sua preda: slancio, veleno e preda formano una concrezione di immagini che risaltano l’essere rapace ma anche la sua tempestività e prontezza. Nel testo di Shakespeare viene chiamato staniel che una forma antica di stannel, da cui anche standgale, standgall, stanchel, stand hawk, stannel hawk, steingale, stonegall, che letteralmente sta per colui che chiama dalle rocce. Nell’inglese moderno tuttavia il temine usato è kestrel. E poi da Eugenio Montale nel componimento: “L’estate”. Il Gheppio a differenza di altri rapaci, sbatte le ali frequentemente, ma la caratteristica piú evidente è il cosiddetto volo detto a spirito santo, durante il quale si mantiene totalmente fermo in aria, con piccoli battiti delle ali e tenendo la coda aperto a ventaglio, sfruttando il vento per mantenersi stabile e osservare il suolo in cerca di prede e con la sua vista riesce a scorgere un insetto da una distanza di 50 metri ed un piccolo topo anche da 300 metri! Inoltre sembra che riesca a percepire persino la luce ultravioletta, un’arma in più nella caccia dei topi campagnoli che rende visibile la loro urina utilizzata per delimitare il territorio, per tracciare il percorso per raggiungere le riserve di cibo e per segnalare la predisposizione all’accoppiamento. Nonostante si nutra di piccole prede e sia un perfetto controllore del numero dei roditori, la maggior parte degli abitanti della campagna hanno da sempre guardato gli uccelli predatori come una minaccia per sè stessi e per i loro animali. Una cattiva e immeritata fama che ancora oggi in alcune zone non riesce ad essere estirpata e che in passato causò l’avvelenamento, la cattura e l’uccisione di migliaia di esemplari.
Favria, 26.10.2020 Giorgio Cortese

L’arte di vincere domani la si impara nella sconfitte avute oggi.
giorgio_settembre