Sciacallo? No mascalzone! – In cammino.. – La scacchiera della vita. – Non siamo un paese normale ma andiamo avanti con il vento in faccia. – Till Eulenspiegel.-La gentilezza loquace!. – Non vogliamo disturbare. – Dal moschetto al moschettone..LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Sciacallo? No mascalzone!
La notevole diffusione dello sciacallo, unita alla sua abitudine di cibarsi di animali morti, ha fatto di questo animale una presenza importante nella cultura popolare. Gli Egizi identificavano con uno sciacallo il dio Anubi signore della morte e dell’oltretomba. Oggi nel linguaggio comune, il termine “sciacallo” viene spesso usato in senso denigratorio per riferirsi a persone, soprattutto per indicare chi trae in qualche modo giovamento dalle difficoltà altrui. Deriva da quest’uso anche la parola sciacallaggio, che si riferisce a chi depreda la proprietà altrui in occasione di catastrofi o altri eventi eccezionali. Ma forse l’atteggiamento di chi ad una donna in coma taglia il dito per asportare l’anello si potrebbe parlare di mascalzone, che deriva dall’alterazione di maniscalco, garzone di stalla e la parola scalzo, ovvero persona priva di scrupoli e di scarso senso morale, che compie azioni disoneste senza offendere lo sciacallo che almeno ha una sua dignità come animale ed invece di certi simili, t che l’hanno smarrita con la morale, perché se la fame viene e passa, la dignità una volta persa non torna piú!
Favria 9.07.2017 Giorgio Cortese

Devo pensare che più a fare del bene che a cercare di stare bene, forse finirei anche di stare meglio

In cammino….
Leggo sui giornali e me lo ripete sempre l’amico Sergio Feira che camminare fa bene sia alla salute che al buon umore. Devo dire che il camminare è un movimento innato in noi esseri umani, tant’è vero che la camminata è uno stadio dello sviluppo motorio che si acquisisce spontaneamente. Il camminare non comporta nessun movimento forzato e quindi nessun trauma all’apparato locomotore, come invece può succedere nella corsa. Potrei proseguire che camminare fa bene ai muscoli e alle ossa, ed al cuore che è un muscolo. Ma migliora anche l’apparato respiratorio, insomma camminare fa bene a tutto il corpo ed anche ai piedi. L’amico Sergio con altri 13 amici si sono ritrovati a Rivarolo alle ore 21,00 e nonostante le torride temperature siano andati sino al Santuario di Oropa, alle ore 1 del mattino erano già a Ivrea e poi alle 5,30 ad Andrate e poi finalmente alle 12,30 l’agognato arrivo al Santuario, stanchi ma soddisfatti, dopo aver precorso circa 63 Km a piedi sempre con la soffocante compagnia del caldo. Questi intrepidi eroi del quotidiano, facenti parte del Nord Walking di Rivarolo con amici del Nord Walking di Volpiano sono stati magistralmente guidati dal Bravo Franco Gribaldi ottima guida che non ha mai perso il giusto sentiero. Purtroppo una persona ad Ivrea per problemi ha dovuto ritirarsi ma a tutti va il mio personale plauso per questo loro gesto. Se ci pensiamo bene il camminare inizia con il primo passo davanti all’ingresso di casa, ed è il possibile di fronte al tutto. Con il camminare si apprende la vita, camminando si conoscono le persone, e camminando nella notte penso che abbiamo osservato le stelle, ascoltando la voce dei compagni di viaggio e seguendo le orme dei loro passi. Da sedentario, cammino solo alla domenica pomeriggio e ritengo che il camminare è l’unica forma di trasporto in cui noi esseri umani procediamo eretti con la mente libera di riposare dalle preoccupazioni. Certo da solo alla domenica mi pare di camminare veloce ma loro nella lunga notte insieme verso Oropa sono andati veramente lontano. Da come mi ha raccontato, Sergio penso al loro camminare nella notte dove hanno abbracciato nel silenzio assoluto, rotto solo dal loro incedere, l’immensità della natura. Per giungere sino al Santuario nel Biellese il tempo per quella notte ed il mattino successivo, è stato scandito dalla luna prima e poi dal sole mattiniero. Insomma sono entrati per un giorno ed una mattina in un mondo che viaggia al contrario di quello che io conosco, non scandito dalla frenesia degli esseri umani che si attiva con le prime luci che illuminano i paesi che hanno attraversato, composto da vite che procedono speditamente, incuranti che ogni mattina e ogni sera si può assistere camminando ad una modo di vivere che stiamo perdendo, quello che la vita non ci è stata data per rincorrere con ansia il tempo, ma viverlo, senza dimenticare l’immensità, i colori, le fragranze della natura che ci circonda e che è un continuo e fantastico stupore per il creato. Hanno ragione gli amici del Nord Walking, che basta solo mettersi in cammino. Molte volte, da sedentario la paura è quella di muovere il primo passo, la comodità mi rende pigro, ma se prendo coraggio mi accorgo come mi dice Sergio che con il Nord Walking il camminare diviene intelligente, con i bastoncini, dove l’avanzare diventa una trazione integrale, con il corpo e la natura indivisi, il ritmo scandito dai passi diventa poesia e libera la mente che decolla alla ricerca dei tanti perché della vita. La mente ringrazia perché nel cammino ritrova la sua forza, dimentica il pericoloso pensiero degli altri e affonda la sua forza nell’intino dell’animo e sprona a tiare fuori il meglio di Voi, sa abbattere i muri e azzerare gli ostacoli. Complimenti ancora e che dire buone camminate.
Favria, 10.07.2017 Giorgio Cortese

Il dono più bello a volte sta nei piccoli gesti, vieni a donare a Favria, mercoledì 12 luglio cortile interno del Comune dalle ore 8,00 alle ore 11,20. Ti aspettiamo

La scacchiera della vita.
Lungo il sentiero del bosco ripristinato da Luciano, guardaparco PNGP e dalla moglie Maura percorro la vecchia mulattiera che partendo da Pezzetto, sale a Molino di Forzo. Sul limitare del bosco, vicino all’argine del torrente vedo un manufatto simile ad una scacchiera. La scacchiera è massiccia di pietra, può sembrare grezza ma è ben delineata, ed al posto delle pedine della dama o dei pedoni degli sacchi ci sono delle semplici ma significative pietre di fiume. Rifletto che il gioco degli scacchi ha avuto origine in un punto assai remoto della storia della civiltà e per molti secoli è stato visto come metafora, dalla guerra alla virtù e all’amore spirituale, dall’intelligenza allo studio della mente. Insomma le 64 caselle sono simili al globo in miniatura e l’evolversi della partita può in qualche modo essere assimilata allo scorrere del tempo in quella che è una esistenza umana, con tutto ciò che essa comporta. I sassolini disposti sulla scacchiera mi sembrano al libro della vita, le immagino come dei sassi bianchi come il libro della vita, dove all’inizio della mia umana esistenza nulla è ancora stato scritto. Ma poi mano a mano che cresco entro in contatto con delle persone, con loro cammino tratti più o meno lunghi del sentiero chiamato vita e la natura mi accompagna, senza che quasi me ne accorga per tutta la mia esistenza, con la sua colonna sonora, simile all’acqua che scorre nel torrente limpido li vicino. Purtroppo c’è subisce scacco matto in poche mosse e mi saluta prematuramente, c’è chi continua a giocare come il sottoscritto aspettando che giunga anche per me il momento in cui l’arbitro/destino bloccherà l’orologio. In questo gioco che si chiama vita, ogni giorno fatico con costanza e perseveranza per raggiungere delle vittorie parziali. Ma non è mai una vittoria netta, ma ogni giorno riparto dall’inizio del gioco e faccio esperienza delle sconfitte del giorno prima per raggiungere sempre a dignitosi risultati senza mai perdere la volonta di crederci sempre, di metterci il cuore e di ascoltare con attenzione chi incrocio con la mia scacchiera che chiamo vita, per avere sempre la forza di rialzarmi sempre, anche dopo le inevitabili e umane sconfitte. Il tutto sempre accompagnato dal fluire del tempo che è simile al gagliardo torrente che mai si arresta in ogni tempo e stagione, giorno e notte. Buona partita a tutti
Favria, 11.07.2017 Giorgio Cortese

SOS emergenza sangue! Siamo in emergenza se puoi vieni a donare Ti aspettiamo mercoledì 12 luglio ore 8-11,20 cortile interno del Comune a Favria. Se puoi vieni c’è tanto bisogno grazie

La tradizione non vuole dire che i vivi sono morti, vuol dire che i morti vivono in noi con i loro ricordi ed i loro insegnamenti.

Non siamo un paese normale ma andiamo avanti con il vento in faccia
Verso fine giugno uscendo dal lavoro ho potuto assistere al campionato italiano di Handbike. Una disciplina nata per tutte quelle persone che pur avendo difficoltà di difficoltà di mobilità o che non possono utilizzare gli arti inferiori, pertanto, utilizzano solo gli arti superiori, utilizzando proprio lo stesso principio della bicicletta attraverso due manovelle, trasmettono energia alla catena che fa girare la ruota anteriore, avendo queste la stessa funzione dei pedali nella bicicletta. Le ruote posteriori consentono di stare in equilibrio e dare stabilità, permettendo al mezzo di andare sempre avanti. Alcuni di loro con paraplegia alta o tetraplegia che hanno non attivi tutti i muscoli dal punto della lesione alla parte bassa del corpo, si posizionano con una guida semi sdraiata, tale da offrire meno resistenza all’aria e riducendo il al minimo il dispendio di energia. Per altri che non hanno gli arti inferiori la posizione è stata concepita in maniera tale da poter sfruttare al massimo la spinta sia delle braccia e sia di tutti i muscoli del busto fino ai glutei con uno sforzo fisico decisamente superiore ed è per questo che vengono divisi in due categorie e quando corrono nel crono raggiungono discrete velocità. Da normodotato non posso che elogiarli per l’impegno e la determinazione che mettono nell’affrontare la competizione con la stessa determinazione che affrontano le quotidiane sfide, senza mai mollare e sempre con il vento dei problemi, architettonici e falso buonismo che devono affrontare ogni giorno. Sono esseri umani come me, per i quali il destino è stato matrigno ma che non per questo demordono pedalando controvento ogni giorno per affermare la loro umanitàe la loro voglia di vivere rispettati come esseri umani e non compatiti. Proprio come noi normodotati che ogni giorno dobbiamo affrontare le strade dei paesi sia come pedoni che come ciclisti. Siamo un paese “nemico” di chi ha problemi di barriere architettoniche, dei pedoni e dei ciclisti. Ogni giorno chi va a piedi o in a bicicletta, cammina o pedala per lavoro o per hobby deve lottare contro la cronica mancanza di marciapiedi, e piste ciclabili che non fanno consenso e continuiamo a farlo a rischio e pericolo quotidiano schivando buche o incroci mal segnalati, con dossi simili a trampolini da sci d’acqua e pedalando sui marciapiedi preso per pista ciclabile. Queste ultime mancano ed i ciclisti, mettono a rischio i pedoni in una guerra tra deboli utenti della strada. Ma si sa i dossi, gli eventi ludici e sportivi fanno audience un po come il panem et circensens dell’Antica Roma, i marciapiedi e le piste ciclabili no, non danno lustro ma verrebbero lustrate dal passaggio di migliaia di persone nel corso dei decenni li utilizzano per lavoro e svago. Fermiamo questa strage infinita di pedoni, professionisti, amatori o semplici cittadini che vanno a piedi o che inforcano la bici per i loro spostamenti quotidiani che sono gli utenti più vulnerabili, il vaso di coccio che troppo spesso finisce schiacciato da auto di ferro e mezzi pesanti, travolto a un incrocio, superato a distanza ravvicinata e fatto cadere come un birillo dall’indifferente dosso che rallenta le auto ma rischia di fare cadere i ciclisti. Dietro le burocratiche e fredde cifre dei morti ci sono vite spezzate di persone, fermiamo questa litania di morti degna di un bollettino di guerra. Dicono che la passione muove le montagne e allora mi auguro che la passione smuova gli animi dei locali amministratori e si pensi a piste ciclabili intercomunali e marciapiedi che uniscano Comunità, questa è secondo me un bella prova di coesione e di fare una volta tanto aggregazione, dire squadra no perché poi finiscono per discutere su chi porta la fascia da capitano ed i lavori non partirebbero mai.
Favria 12.07.2017 Giorgio Cortese

Nella vita dopo il verbo “amare” il verbo “aiutare” è il più bello del mondo.

Till Eulenspiegel
Recentemente ho ascoltato dei brani del poema sinfonico dal titolo “I tiri burloni di Till Eulenspiegel” che Richard Strauss compose nel 1895. Mi sono incuriosito sul personaggio, è ho scoperto che fa parte del folclore del nord della Germania e dei Paesi Bassi. Secondo la tradizione sarebbe nato nel ducato di Brunswick intorno al 1300 e sarebbe morto nel 1350. Till è un contadino furbacchione, trapiantato in città dopo essere stato scacciato dal padre che gli rimprovera la pigrizia. Nell’urbe il giovanotto riscuote simpatia, pure presso i nobili e i borghesi. Preso a servizio da questo o quel padrone, ne esegue gli ordini tanto alla lettera da causare disastri; è il suo modo beffardo di dimostrare quanto gli esponenti di quella società cittadina s’ingannino nel credersi superiori ai campagnoli. Tra le sue burle, è celebre quella in cui paga l’oste che gli presenta il conto per un arrosto di cui ha solo sentito il profumo, facendogli ascoltare il suono di una moneta battuta sul tavolo. Till Eulenspiegel è lo spirito burlone del popolo tedesco, non è un eroe convenzionale, ma un contadino alla riscossa. Le sue gesta non sono affidate alla spada bensì a una provocatoria astuzia, che egli usa per mettere in ridicolo i ricchi cittadini. Nei secoli la sua figura cambia diverse volte, fino a fargli anche impugnare con coraggio le armi contro gli Spagnoli. Secondo questa versione il padre di Eulenspiegel è mandato a morire sul rogo dall’Inquisizione, che lo ha condannato come eretico. L’intrepido figlio allora si mette a combattere, imbrogliare e offendere gli Spagnoli, assumendo il comando di una banda di ribelli gueux, pezzenti, così furono chiamati gli strenui ed efficaci oppositori di Filippo II. Accanto a Till si trovano Lamme Goedzak, compagno di numerose gesta ardite e comiche, e la bella Nele, che ricambia i teneri sentimenti del protagonista. La maggior parte delle storie di Till lo mostrano come un personaggio amante del divertimento, irriverente e sempre pronto a farsi beffe degli altri. Talvolta finge di non capire quanto gli viene detto, per esempio prendendo alla lettera espressioni figurate, per burlarsi del suo interlocutore. Il nome, nella sua forma odierna evoca, in tedesco, la civetta, Eule e lo specchio, Spiegel, e così spesso le immagini che lo raffigurano lo mostrano con in mano entrambi gli attributi. In realtà, sembra che il nome derivi da una espressione un po’ gergale dal significato irriverente di “prendere per in giro” che si avvicina molto al significato del modo di dire italiano “essere lo specchio per le allodole”. In suo onore è intitolato l’asteroide 55749 Eulenspiegel.
Favria 13.07.2017.

Abbiamo bisogno di prendere di petto i problemi della nostra Comunità rimandando le divisioni in atto a dopo aver guarito il malato. Prima guarire e poi discutere su come farlo crescere sano

Nella vita di ogni giorno l’azione più bella è di essere utile al prossimo!

La gentilezza loquace!
Mi ricordo che quando la osservavo il suo comportamento era a volte buffo, altre volte curioso. Da bambino, finita la scuola, durante l’estate li osservavo a fare “bagni di terra”. Era divertente vedere come si rotolavano nel terreno polveroso del cortile, vicino al giardino, per liberarsi dai fastidiosi parassiti che si annidano tra le piume e li tormentavano con le loro punture. Un atteggiamento tipico di molti gallinacei e di mammiferi, ma che osservato in quattro ghiandaie, diventava persino divertente. Erano arrivati a casa nel mese di marzo, quasi all’inizio della Primavera, trovati non so più da chi. Con gioia e curiosità mi avvicinavo alla gabbietta dove erano stati depositati con delicatezza da mio papà. Mi ricordo il compito affidatomi di andare a nutrirli periodicamente con pastone composto da granoturco e grano macinato grezzamente ed inumidito con acqua. Poi con l’avanzare della stagione portavo a mangiare dei grassi lombrichi trovati nell’orto. Dopo alcuni giorni mi avevano adottato come loro genitore adottivo, e le porzioni venivano aumentate gradatamente sotto la supervisione di mio papà. Le quattro ghiandaie, crescevano con il loro piumaggio prevalentemente di un chiaro marrone rossastro.. La cresta, spesso sollevata durante la comunicazione, è bianca con macchie nere. Il becco è nero e delle strisce di baffi neri si estendevano verso il basso partendo dalla base del becco. La coda nera sul dorso con una chiazza bianca intorno alla base. Le ali avevano aree blu acceso con chiazze nere. Mi emoziono ancora adesso nel ricordare come si esprimevano tra di loro con dei richiami la rabbia nel contendersi un lombrico, l’allegria nel fare dei bagni nella tinozza nella vigna e la gioia dell’affetto quando gli portavo da mangiare anche se erano completamente svezzate. Erano divenute con l’estate avanzata degli imitatori esperti, imitava il miagolio del gatto ed il verso della gallina che ha appena fatto l’uovo, e la mia povera nonna correva inutilmente nel pollaio per rendersi conto dopo di essere stata gabbata da loro. I quattro moschettieri, come li chiamavo avevano imparato a dire “Giaco”, “Giogio”. Erano gentili, direi garruli, con il loro modo di fare canterino, se si concede al merlo l’onore di essere il più simpatico ospite, le ghiandaie non avevano rivali in fatto di simpatia. Poi venne l’inverno, durante il quale gli incontri con i quattro moschettieri divennero sempre più radi. Ma l’anno successivo all’inizio della primavera con il periodo dell’accoppiamento, incominciarono a cercare di farsi la loro famiglia al fondo della vigna sui rami di un grande pero. Le osservavo come prendevano l’iniziativa con le ali abbassate di lato, penzoloni, la coda alzata a pennacchio e con emissioni canore forti e insistenti. In questi corteggiamenti iniziavano ad azzuffarsi per azzuffarsi tra loro. Alla fine ne rimase uno solo, gli altri giravano per le vigne vicine ed erano ritornati alla loro vita selvatica. Solo uno ogni tanto ritornava e si faceva avvicinare ed accettava ancora dalle mie mani del cibo. Per alcuni anni è ancora ritornato poi anche lui non ha più fatto ritorno. Sono passati tantissimi anni ma conservo ancora nell’animo una grande gioia nel ricordarli e di quanto mi sono divertito con loro, erano i quattro moschettieri dalla gentilezza loquace!
Favria, 14.07.2017 Giorgio Cortese

Nella vita le azioni che meriano di essere compiute devono essere fatte bene,

Non vogliamo disturbare.
Una domenica mattina ho incontrato nella mia consueta passeggiata domenicale un concittadino che per la privacy tralascio di nominarlo. Il suo incontro mi ha ricordato quante sono le emergenze nel nostro Paese e nel mondo, emergenze che non occupano i titoli di prima pagina ma che fanno capire una realtà che non crea clamore e anzi tira avanti tra mille difficoltà e che non vuole disturbare. Questa persona sopravvive con un modesto salario con moglie e due figli. La moglie prima lavorava ma adesso che è incinta ha dovuto interrompere la sua attività di colf. Nel frattempo l’azienda dove lavora lo ha messo in cassa integrazione e con i pochi soldi messi da parte che si erodono mese dopo mese cerca di andare avanti con dignità. Certo non è ben vestito e forse non ha un buon odore di acqua di colonia ma come diceva Flaubert “gli eroi non hanno un buon odore”, gli eroi del quotidiano che tirano la cinghia, non fanno polemiche ma vanno avanti. Persone come Mario, nome di fantasia che stringe la cinghia, tribola a pagare le bollette ed arrivare a fine mese con un stipendio solo, che in questi periodi non è neanche completo. La moglie avrà famiglia, si aggiungeranno altre spese e preoccupazioni ma lui con ottimismo mi ha detto che lui non chiede aiuto a nessuno confida nella Divina Provvidenza e non vuole disturbare nessuno. Rifletto che questa persona ha una grande nobiltà d’animo rispetto a quelle persone che si lamentano sempre e che vedono con diffidenza l’arrivo di immigrati che pensano gli portino via il pane di bocca. Riprendo il mio cammino portando nell’animo le ultime parole che mi dice prima di accomiatarmi, che lui vive la vita serenamente e che l’ansia come gli diceva suo padre è simile ad una sedia a dondolo, sembra che sei sempre in movimento ma non avanzi di un passo, invece con l’animo sereno lui con fatica ogni giorno va avanti.
Favria, 15.07.2017 Giorgio Cortese

Nella vita più che sforzarmi a trovare un senso alla vita mi devo sempre impegnare per avere una quotidiana meta.

Dal moschetto al moschettone.
Oggigiorno se sentiamo parlare di moschettone, pensiamo da subito ad un anello di metallo, incompleto per permettere l’apertura e la chiusura dello stesso. Di forme diverse, presenta un lato apribile tramite una leva che può essere fermata da una ghiera. Può essere di acciaio oppure leghe leggere. Viene usato laddove c’è necessità di unire due elementi in maniera rapida sicura e riutilizzabile, per questo è usato spesso per sport quali arrampicata, alpinismo, parapendio, speleologia. Anche se il termine “moschettone” lascia il posto al più corretto “connettore”. Il moschettone nacque intorno al 1800 per poter chiudere in maniera rapida la bandoliera dei fucili, appunto i moschetti, da cui deriva il nome. Successivamente, venne utilizzato in agricoltura, in oreficeria, nonché dai pompieri e fu probabilmente dai pompieri che l’utilizzo dei moschettoni si estese all’alpinismo. I primi utilizzi dei moschettoni in campo alpinistico e di arrampicata risalgono ad inizio Novecento, ma non vi sono date certe. Il moschetto in origine era una freccia per balestre, nell’esercito di Carlo V nel 1530, diviene un arma da fuoco portatile molto pesante, appoggiata su una forcella piantata nel terreno ed era affidato a soldati di eccezionale prestanza fisica i moschettieri. Il nome moschetto è sicuramente di origine italiana. Secondo la tesi più diffusa il nome rientrerebbe nella lunga serie di nomi di animali con cui venivano battezzate le bocche da fuoco: smeriglio, falconetto, aspide, colubrina, serpentino, basilisco. Il moschetto sarebbe stato lo sparviero così chiamato “perché il maschio è più piccolo della femmina” oppure, secondo altri, perché il piumaggio sul petto presenterebbe un disegno che ricorda una mosca! Altri però fanno osservare che il dardo dell’arciere con il suo sibilo o ronzio ben può essere paragonato ad un insetto volante, la mosca, che si ritrova nello spagnolo mosquito. . È associato ovviamente all’idea del volo come metafora della velocità. Secondo un’antica tradizione francese, il nome moschetto deriva anche da quella parte di barba compresa tra il labbro inferiore e il mento, chiamata mosca, tipica dei soldati armati appunto di moschetto, i moschettieri. I moschettieri, istituiti nel 16° sec., furono assegnati in numero variabile nelle compagnie di picchieri. Una compagnia fu costituita per guardia del cardinale Richelieu prima e di Mazzarino dopo e, alla morte di quest’ultimo, passò al servizio reale. Soppressi dalla Rivoluzione francese, riapparvero nel 1814 per sparire definitivamente nel 1815. Nell’esercito sardo si chiamarono moschettieri i soldati destinati alla vigilanza dei militari condannati alla reclusione militare; furono soppressi nel 1863. Durante il fascismo: moschettieri del Duce erano le guardie del corpo di Mussolini, con funzione soprattutto di parata, i balilla moschettieri e avanguardisti moschettieri, e nelle organizzazioni giovanili, erano reparti scelti dotati di moschetto. I moschetto diviene un arma simile al fucile, in dotazione alla cavalleria e alle truppe speciali e aveva una baionetta con lama a sezione triangolare, fissata a snodo sulla canna in modo da potersi ripiegare lungo di essa, ed era privo di copricanna di legno. Alla fine della Prima guerra mondiale comparve nell’esercito italiano il modello automatico calibro 9, derivato dalla pistola mitragliatrice a due canne mod. 1916, che diede origine al m. automatico Beretta MAB, mod. 38/42 della Seconda guerra mondiale e a una nuova versione del 1951. Come si vede da arma di offesa e di morte è divenuto utile strumento per mettere in salvaguardia la vita delle persone.
Favria, 16.07.2017 Giorgio Cortese

Se penso a non vivere più in istanti, bensì in anni, l’animo si placa, perché nulla fa più male nella vita di ogni giorno l’irrequietezza affannosa, il meschino affaccendarmi, invece di accettare tutti gli eventi con tranquilla e semplice pazienza.