Dal velo alla coefa!. – Mercoledì 12 aprile. – Commendare il commendatore. – Il comune senso del..dovere. – Soverchiare il glamour. – I libri – Pasqua!….LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Dal velo alla coefa!
L’uso del velo da parte delle donne è molto antico e diffuso, benchè oggi sia riferito soprattutto alle donne di religione musulmana e alle suore di vari ordini tanto che la frase prendere il velo significa appunto consacrarsi. Per velo si intende un tessuto molto fine e trasparente. Il termine italiano deriva dal latino velum, tenda o cortina dalla radice val, coprire che è la stessa radice che genera i termini in inglese, veil,, e francese, voile. Dalla ricerca etimologica si possono già ricavare alcuni significati attibuiti del coprire qualcosa con tessuto trasparente e fine, insomma “velare”. I termini svelare, rivelare mi indicano come la mia scoperta sia di per sè non una creazione ex novo ma semplicemente un “alzata del velo” che copre la conoscenza dell’oggetto. L’uso del velo nella storia umana diventa poi più comune come copricapo, per ripararsi dal vento, dal sole o dalla sabbia. Per indicare lutto o semplicemente per nascondere l’identità di una donna che si reca ad un convegno amoroso. Fino agli annni sessanta del novecento le donne che andavano alla S. Messa indossavano un velo, bianco per le nubili e nero per le vedove. Ma ancora oggi molte donne che si sposano portano un “candido” velo raffinato e sovente lunghissimo, velo che spesso copre parzialmente il volto della sposa e che viene sollevato solo a cerimonia conclusa, segno del passaggio di stato da nubile a maritata. La stessa Maria, madre di Dio, viene da sempre raffigurata con un velo azzurro, mentre alla Maddalena la tradizione assegna un velo rosso. Pensate che nel Medioevo, precisamente in Europa, come letto recentemente in un libro, le donne anglosassoni e anglo-normanne, con l’eccezione delle giovani nubili, indossavano veli che coprivano interamente i capelli e spesso anche collo e mento. Solo a partire dai Tudor nel 1485, il velo diventa meno comune e viene sostituito dall’uso di cappucci. La veletta invece fece la sua apparizione nel XIX secolo e durò fino al 1920 riportando il gioco del vedo-non vedo ed utilizzata come strumento di eleganza e seduzione o per coprire il dolore nei momenti del lutto. E qui voglio entra nel discorso con la parola Piemontese e Canavesana “coefa”, usata dalle nonne e adesso molto rara nelle donne per entrare in Chiesa. La cosa curiosa che ho scoperto che la lingua Piemontese, che è la nostra identità, le nostre radici. Questa lingua che è la nostra storia anche culturale, ha attinto nel corso dei secoli lemmi originari di altre lingue. La “coefa” secondo alcuni deriva dal tardo latino coefa, probabilmente di origine germanica ma secondo altri dai contatti avuti nel Medioevo con i Saraceni che indossavano la kefiah che pare derivi dalla città araba di Kufa dove era molto usata. Premetto che sono solo delle ipotesi, ma ci pensiamo in Piemonte nel X secolo entra in contatto con i Saraceni, che effettuano numerose scorrerie e che hanno lasciato anche i vocaboli: “armassin”, susina; “cossa”, zucca; “fàudal”, grembiule, da fodhal, grembo ed infine “fardel”, fagotto da farda che ra il carico del cammello. Dal velo tra origine di “cavarsela o farcela per il rotto della cuffia”, superare alla meglio una situazione difficile. Questo modo di dire trae origine dall’antica giostramedievale del Saracino o della Quintana. Il cavaliere in gara, lanciata al galoppo la cavalcatura, doveva colpire un bersaglio o infilare la lancia in un anello portandolo via, evitando di essere abbattuto dall’automa girevole contro il quale si gettava. Se il braccio dell’automa si metteva in moto colpendo il copricapo, cuffia, del cavaliere, senza però abbattere quest’ultimo, si diceva che il cavaliere era uscito per il rotto della cuffia, insomma, che ce l’aveva fatta nonostante la cuffia fosse stata colpita o rotta. Finisco questa spiegazione sull’origine della parola piemontese coefa e sul velo, che è sempre stato strumento di seduzione o di protezione, simbolo di mistero e del sensuale gioco del velare e scoprire. Insomma il velo mi ricorda che ciò che è nascosto alla vista è un bene prezioso che necessita un’adeguata attenzione e livello di conoscenza per poter essere scoperto.
Favria, 11.04.2017 Giorgio Cortese

Quello che manca oggi è che i giovani non hanno bisogno di prediche, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo da chi li governa

Quando inizia una sfida si muovono le pendine sulla scacchiera della vita. Ma per vincere devo sempre sopportare con pazienza e sconfiggere con amore le oppressioni esterne e quelle interne al mio animo

Mercoledì 12 aprile
Vieni a donare mercoledì 12 aprile a Favria dalle ore 8 alle ore 11,30, cortile interno del Comune, la donazione di sangue aiuta a controllare la propria salute e fare del bene ad altri esseri umani. Grazie del Tuo aiuto anche a divulgare il messaggio. Ricordo per chi si accinge la prima volta ad intraprendere questo importante percorso del dono, verranno eseguiti solo esami per vedere se è idoneo, in quanto non ancora “ conosciuto” da un punto di vista sanitario, per la sua sicurezza e anche per la sicurezza di chi riceverà il sangue e verrà rilasciata una giustifica oraria.

Commendare il commendatore.
Il lemma commendare significa affidare, raccomandare, lodare e deriva dal latino: commendare, ovvero dare in custodia. Una parola che uso poco e che ho trovato in un libro. Una parola dall’intonazione antica e nobile, i da li deriva il termine commendatore, che deriva dall’uso, negli antichi ordini religiosi militari di attribuire ad alcuni membri le rendite e i benefici di una commenda. Preciso che la commenda è una tipologia di contratto, di origine medievale. Commendatore, significa raccomandatore, protettore. Il commendatore è il grado intermedio tra quello, inferiore di cavaliere e quello superiore di cavaliere di gran croce. commendatori portano l’insegna dell’ordine sospesa al collo, appesa a un nastro con i colori dell’ordine. Purtroppo oggi abbiamo delle persone imbecilli che raccomandano degli idioti, una società sana dovrebbe premiare il merito, e punire i mascalzoni e investendo nell’ istruzione e non in spettacoli e feste. A questi stupidi non capita mai di pensare che il merito e la buona sorte sono strettamente correlati ma purtroppo certi usano la politica per ottenere potere e privilegi senza averne il merito. E si è duro ammetterlo, ma se non riconosco il demerito di certi squallidi personaggi non potrò mai valorizzare il merito.
Favria 12.04.2017

Il modo imperativo non ha la prima persona, perché è più facile comandare agli altri che a me stesso

Il comune senso del….dovere.
Qualche giorno fa ero a cena con alcuni amici con i quali in questo periodo condivido dei comuni progetti. Durante la cena parlavamo, come spesso capita, di ciò che ci piace, ci stimola e che ci spinge a crescere. Una sorta di cenacolo ludico, ma anche strategico perché spesso ne esco con nuove idee e suggerimenti. Il discorso si è focalizzato sul senso del dovere. Ovvero si parlava di come le persone sono motivate a fare quello che fanno. Ne sono emersi alcuni aspetti interessanti che mi spingono a condividere con chi mi legge. Innanzitutto: cosa si intende per senso del dovere? Il dovere è un obbligo che mi viene imposto dagli altri. Un caro amico ha suggerito che il senso del dovere è legato alla parola “devo”. Ogni volta che dico a qualcuno “devi” gli sto dando un ordine. Allora il “devi” funziona molto bene in ambiente gerarchico rigido, dove manca il ragionamento ma si deve solo eseguire. Secondo altri commensali il senso del dovere è nella nostra natura umana e non obbedienza, perché chi obbedisce potrebbe non avere senso del dovere. Una persona che il senso del dovere potrebbe non obbedire indiscriminatamente. Se nella società si conoscesse meglio il senso del dovere, i rapporti tra le persone non sarebbe guidati dal puro senso dell’interesse. I cittadini eletti alle cariche pubbliche se tutti sentissero forte il senso del dovere, non ruberebbero e i cittadini non trasgredirebbero le leggi, insomma tutti si sentirebbero organizzati per il raggiungimento di un comune risultato. Ma, come detto prima il senso del dovere non significa “obbedire alla cieca”. È evidente che ogni capo, dal suo canto, deve saper “dimostrare” continuamente di essere all’altezza delle situazioni e, alle eventuali contestazioni, deve rispondere con sicurezza, serenità e fermezza. Allora mi sono detto: “si, bene, bravi, ma per me cosa è il senso del dovere, il mantenere un impegno preso anche se poi non ho ancora imparato a dire no e quindi gli impegni me li prendo sempre tutti? E una volta preso l’impegno è preso non si può’ tornare indietro, non sta bene, non si fa, non è permesso. Se mancassi ai miei impegni cosa penserebbero gli altri di me? Una persona inaffidabile! E allora anche a costo di fare delle capriole sui gomiti cerco di mantenerli pur di non fare quella meschina figura. Ma poi mi domando se è davvero cosi importante? Ma cosa vuole dire la parola dovere, e allora corro a consultare il dizionario etimologico mio prezioso amico e alleato. Il verbo deriva dal latino debere, contratto di degibere composto da de e habere, avere, quindi avere avuto qualcosa da uno e perciò essergli debitore. Insomma il senso del dovere se preso supinamente è un obbligo morale, ovvero ciò che si considera giusto a priori, senza averlo verificato, meditato alla luce del buon senso, del “caso per caso”. Allora più che senso del dovere deve sempre prevalere nelle quotidiane azioni il senso di responsabilità. Quando c’é senso di responsabilità il risultato potrebbe sembrare simile agli effetti dell’usare il senso del dovere ma c’é una differenza fondamentale: la motivazione. Chi fa le cose per senso di responsabilità solitamente è molto motivato e fa quel che vuole fare e non perché deve ma perchè ci crede in quello che fa e lo ritiene necessario. Personalmente ogni giorno cerco di legare come motivazione il senso del dovere con l’agire anche nelle azioni quotidiane minime con l’entusiasmo, en-theos essere in Dio, e allora non sento fatica, non sento costrizione, non ho ripensamenti e nulla mi pesa, anzi trovo soddisfazione sia nel lavoro umile che alla riuscita di un progetto importante. Solo così il senso del dovere diviene la stella polare nutrita dalla passione e dell’entusiasmo quotidiano, una qualità inestimabile che, se ben coltivata, permetterebbe di far funzionare molto meglio la nostra società a tutti i livelli. Una società che si basa, non solo, ma anche, su questo senso del dovere, è una società che ha tutti i requisiti per funzionare nel migliore dei modi. È una società in cui tutti danno ciò che devono dare e tutti ricevono ciò che devono avere. Nessuno è abbandonato, proprio perché secondo il senso del dovere è compito dell’essere umano evoluto è la necessità di aiutare coloro che hanno maggiori difficoltà. Non è l’assurda utopia dell’egualitarismo, ma concretamente riconoscere che una parte delle mia quotidiane attenzioni deve essere rivolta a coloro che, come me, attraversano picchi e avvallamenti del cammino umano. Ma purtroppo oggigiorno molti si nascondono dietro il senso del dovere, per giustificare le proprie nefandezze. È il caso di molti persone che nonostante gli scandali rimangono al loro posto per senso del dovere.
Favria 13.04.2017 Giorgio Cortese

Nella vita di ogni giorno mi sforzo si essere in ciò che dico, crederci sempre e dimostralo nei fatti. Perché la coerenza è il fondamento della virtù.

Soverchiare il glamour
Soverchio una bella parola che significa oggi sopruso ma anche superfluo; eccesso, avanzo, sovrabbondanza; sopruso, sopraffazione. Questo lemma deriva da una parola del tardo latino superculus, derivato di super ovvero sopra. L’immagine di base che mi trasmette il lemma soverchio è quella di qualcosa che sta sopra e che si presta a essere declinata in diversi significati, in cui s’intrecciano sia l’esagerato, l’eccessivo, sia il superfluo, il di troppo. Può essere soverchia la scusa di non realizzare un certo progetto adducendo le scuse più disparate. Ma è anche vero che il grande Michelangelo affermava che ogni statua è già dentro la pietra e lo scultore deve solo togliere il soverchio, ed io aggiunfo che dentro ogni foglio bianco c’è già una storia da raccontare basta fare scorrere con cura e buonsenso l’inchiostro. Ecco il soverchio, quando sopra un oggetto c’è qualcosa, e quel qualcosa non è parte dell’oggetto. Il soverchio eccede la misura giusta, la giusta forma, con uno squilibrio impreciso. Infatti anticamente soverchio significava anche sopruso, sopraffazione, significati che oggi sono più familiari nel verbo del titolo soverchiare.e allora passo alla seconda parola, glamour, che significa fascino e fascinoso. Questa parola è di origine scozzese, variante di gramarye magia, incantesimo, che è la modificazione dell’inglese grammar, grammatica. In Scozia verso l’inizio del XVIII secolo, come detto prima emerge la parola glamour, o glamor, col significato di magia, incantesimo, e con tutta probabilità si tratta di un’alterazione dell’inglese grammar: ma che c’entra la grammatica con la magia? È presto detto. già in latino medievale il suo omologo inglese veniva usato come sinonimo di dottrina, in particolare nel descrivere dottrine magiche ed esoteriche e così il nesso è tratto. Ma a portare alla ribalta questa parola all’inizio del secolo successivo, determinandone il successo popolare, fu Sir Walter Scott, l’autore di Ivanhoe, in pieno Romanticismo, si rivelava una risorsa davvero interessante per descrivere atmosfere fatate e misteriose. Successivamente nei decenni il glamour scavò poi il riferimento alla bellezza femminile, una bellezza fascinosa, charmant, che opera un incanto di seduzione. Finché nel XX secolo si ridusse alla generica attrazione propria di persone particolarmente celebri, in vista e ammirate. In Italia nei giornali la fortuna di questa parola è formidabile e quando viene citato mi accorgo che nessuno ha idea di che cosa glamour voglia dire. Non ha dei significati precisi. Non ha nemmeno una categoria grammaticale precisa. Si può dire che venga usato come sinonimo di ‘fascino’ o ‘fascinoso’ – il che avrebbe etimologicamente senso di fascino e fascinoso ma in realtà dentro vi trovo significati ben diversi. Glamour è alla moda. Glamour è bello. Glamour è esclusivo. Glamour è elegante. Glamour è lussuoso. Glamour è sensuale. Insomma un jolly linguistico che viene usato per chi non sa come esprimersi, o per chi ama crogiolarsi in gerghi vuoti. Insomma, se per tentare di farsi un’idea accettabilmente chiara di che vuol dire un termine d’uso comune serve un’esegesi, c’è qualcosa che proprio non va, la ma parola è divenuta un soverchiante
Favria14.04.2017 Giorgio Cortese

Spesso confondo il dovere con ciò che compiono gli altri e non con ciò che io stesso devo compiere nel mio quotidiano

I libri
I libri, con il loro colore semplice e vivace dei fiori di campo. I libri con il loro odore di stampa che mi inebria l’animo. I libri con il loro sapore simile a quello di un cibo sano che non sazia. I libri con il rumore delle loro pagine simile a quello della mia curiosità, di tutti quei libri che vorrei leggere, di tante cose che ancora non so. I libri mentre leggo mi ascoltano, ed io li ascolto, mi parlano, sanno le parole che vorrei ascoltare, ciò che mi piace e ciò che mi fa arrabbiare. I libri sono gli unici che sanno tutto di me, e lo sanno perché mi fregano con una parola, una frase, un odore, un luogo. I libri conoscono i miei pensieri, i miei desideri, le mie emozioni, le mie paure. I libri sono amici fedeli perché non raccontano quello che sanno, quando tutti vanno via, loro rimangono lì, mi strizzano un occhio e so già che non sono più solo. Sono i libri della biblioteca comunale G. Pistonatto a Favria
Favria, 15.04.2017 Giorgio Cortese

Quando una persona vuole uccidere una tigre, lo chiama sport, ma quando una tigre vuole uccidere lui, la si chiama ferocia.

Pasqua!
Pasqua è la festa di chi crede che il miracolo della vita possa stupire in ogni momento. Che in questa nuova Pasqua possa risorgere la speranza, là dove speranza non c’è più. Che ogni uovo, simbolo della vita, possa schiudersi e nascere la pace, là dove pace non c’è più. Indipendentemente dal nostro personale credo, possa questo giorno essere simbolo di rinascita e rappresentare l’inizio di un sano rinnovamento per ognuno di noi. Che questa nuova Pasqua possa donare la serenità nel cuore di tutti noi.
Favria 16.04.2017 Giorgio Cortese