Omnia fert aetas! – Siamo tutti ebrei! – Qui l’Italia si fa o si muore! – Toki e Beccogiallo. – I Burgundi, Nibelunghi dal mito alla storia. – Il gateau – Da budriere a bautièire…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Omnia fert aetas!
Inizio questo pensiero sul tempo con una frase del grande Virgilio “Omnia fert aetas. Il tempo porta via tutte le cose. Il tempo mi pare tiranno e ogni momento faccio i conti e di tempo troppo spesso non sembra mai abbastanza. Ogni tanto immagino che tutto sarebbe diverso se solo le giornate fossero più lunghe o le lancette dell’orologio scorressero più lentamente e poi vedo le lancette che inesorabilmente vanno avanti. Il tempo che vola via indifferente a prescindere dalla marea di cose che dovrei fare, anche adesso che metto sulla carta questi piccoli pensieri. Il tempo è tiranno o forse l’ultima delle poche cose rimaste davvero democratiche nel corso dei secoli e degli anni. Le giornate durano ventiquattro ore e ciascuna ora ha sessanta minuti: è sempre stato ed è tuttora così, senza distinzione di genere, età o classe sociale. Ma allora io che io ne faccio di questo tempo, uguale per tutti? Sono così sicuri di viverlo bene? Ogni giorno al risveglio mi sembra di vivere dentro una lavatrice centrifuga, cosi paragono l’attuale società consumistica in cui tutto è accelerato, i ritmi frenetici sono diventati oramai la normalità e la giornata è un puzzle di incastri dove spesso affogo in mille impegni con il tempo che sembra che voli via un tempo sul lavoro esisteva lo straordinario. Mi faccio portavoce di tante testimonianze raccolte in questi ultimi anni da parte di padri e madri di famiglia, spesso affogati dai mille impegni, sovraccaricati e stressati da lavori che consumano gran parte della loro giornata, perché se un tempo esistevano gli straordinari, adesso questi sono diventato l’ordinario e non è più così inusuale uscire ad orari tardi e oltretutto senza la facoltà, se non in privato, di lamentarsi, visti i tempi che corrono e quindi l’incubo di perdere il lavoro. Se prima questi ritmi frenetici e stressanti caratterizzavano la vita dei manager e dei dirigenti, di coloro che ambivano a fare carriera e che pagavano con ciò il caro prezzo di poter sedere sulle poltrone del potere, adesso non è più così. La maggior parte dei lavoratori, a prescindere dal ruolo e dall’incarico ricoperto, si trovano a sostenere quotidianamente ritmi impegnativi e spesso senza che questo impegno sia controbilanciato da adeguati riconoscimenti e rinforzi, soprattutto nel settore privato. Se a tutto ciò aggiungiamo alle donne il carico familiare, gli impegni aumentano vertiginosamente e il tempo non è mai abbastanza, per cui spesso per far quadrare i conti, molti si ritrovano a tagliare lo spazio personale. Oggi la situazione generale stia degenerando e che la vita quotidiana sia diventata una corsa contro il tempo, un tempo consumato in cui sopravviviamo e che ben poco viviamo e ci godiamo. La società ci spinge e ci chiede di fare e di produrre, poco spazio rimane per pensare e riflettere, per elaborare idee e progetti, per goderci gli affetti e il piacere di vivere. E’ da tanto tempo che non sento il termine oziare, probabilmente in disuso e sicuramente ad oggi considerato poco concepibile e accettabile. Oggi vige il pensiero comune che il tempo vada vissuto al massimo perché non torna più, ma il principio del carpe diem che potrebbe e poteva avere una sua ragione di essere, è finito per diventare lo spunto e lo sprone per accelerare i tempi, per affogarci di impegni, per avere giornate piene di cose da fare, spesso usate come compensazione a vissuti di vuoto e solitudine, perché è più facile fare che vivere e gestire le emozioni, soprattutto quando spiacevoli. Mi sorge allora il serio dubbio se stiamo andando nella direzione giusta e che questo stile di vita generale e generalizzato sia veramente un elisir di benessere, forse merita che ci fermiamo un attimo e riflettere su come conduciamo la nostra vita, sulla nostra scala delle priorità e sull’opportunità di riappropriarci del piacere e della capacità di vivere il presente
Favria, 13.05.2020 Giorgio Cortese

La speranza è quel tenace fiore che nasce tra i granelli della vita quotidiana.

Siamo tutti ebrei!
Al tempo dell’antica Roma il più grande orgoglio era dire “civis Romanus sum”, dopo la seconda guerra mondiale di aver combattuto le crudeli dittature. Oggi abbiamo di nuovo un’altra emergenza sociale, molto più subdola perché si annida tra le pieghe della democrazia, si chiama nuovo antisemitismo e si aggira per l’Europa. Nei momenti di crisi, quando cresce la paura e si alzano i muri, non vengono colpiti solo gli immigrati, ma torna anche il nemico innocente di sempre, l’ebreo. Troppo simili e insieme considerati diversi, gli ebrei inquietano persone dai cuori e menti chiusi nei propri timori. Nel dopoguerra, dopo la Shoah, è stata eretta una sorta di barriera per impedire il discorso razzista e antisemita. Ma oggi si assiste a una sorta di infezione virale composta da atti di violenza verbale, denigrazione, insulto e pregiudizio, insomma dell’ostilità verso il bersaglio di sempre. Cimiteri profanati, scritte ingiuriose, cori allo stadio. Questa pandemia verso il diverso, verso chi è considerato estraneo a cui dare tutte le colpe trova ampia diffusione nel web. Dopo la guerra Istraele-Palestina gli ebrei vengono assimilati allo Stato di Israele ed al Sionismo, quest’ultimo, movimento nazionalista e ideologia politica che intendeva restituire una terra e una patria agli ebrei in diaspora. Oggi, sempre più spesso, non siamo di fronte alla legittima critica alla politica di Israele, ma a uno scivolamento verso i cliché antisemiti del passato. Ed ecco che dietro la critica a Israele riemerge l’antisemitismo becero e nazista e mentre la memoria della storia impallidisce, e sbiadisce la Shoah, le dittature crudeli dittature del Novecento si accusa di razzismo Israele. Oggi per contrastare l’odio del XXI secolo bisogna decifrare l’amalgama tenendo conto del potere dell’immaginario collettivo nel rievocare miti e menzogne. Si devono individuare le zone d’ombra che fanno dell’antisemitismo un nodo cruciale, una sorta di luogo simbolico in cui si gioca la possibilità di apertura all’altro e alle differenze, oppure la chiusura nel pregiudizio e nell’intolleranza. L’altro viene destoricizzato, ridotto a simbolo, categorizzato anziché considerato nella sua specificità e nei suoi tratti di comune umanità. Oggi, l’odio globale, fosse verso ebrei, musulmani, rom, immigrati, donne o altri, va contrastato in tutte le sue forme sempre.
Favria, 14.05.2020 Giorgio Cortese

Ogni momento che vivo è unico e speciale, ringrazio ogni giorno sempre Dio che mi concede l’opportunità di vivere. Viva la vita!

Qui l’Italia si fa o si muore!
Nella storia militare la battaglia di Calatafimi rappresenta un combattimento d’incontro, poco più di una scaramuccia. Questo scontro ebbe enormi conseguenze sul piano strategico. Il disordinato arrivo della colonna di Landi, con militi stremati dalla fatica e dalla fame, fece una grande impressione sulla cittadinanza palermitana. Garibaldi assurse immediatamente, nella fantasia popolare, al ruolo di condottiero invincibile, al cui comando unirsi per combattere gli occupanti napoletani. L’armamento individuale della fanteria borbonica era qualitativamente migliore di quello dei garibaldini ma sostanzialmente analogo come tipologia e datazione, essendo anch’esso costituito dai vecchi moschetti ad avancarica cosiddetti “di Antico Modello” da 40 e 38 pollici derivati dal modello 1777 francese, riconvertiti con rigatura della canna e accensione a luminello. Solo i Cacciatori a cavallo disponevano dei nuovi fucili da 38 pollici e i Cacciatori a piedi dei nuovi e precisi fucili da 32 pollici mod.1850 belgi. Le artiglierie borboniche erano invece nettamente superiori a quelle garibaldine, ma la ridottissima disponibilità, quattro pezzi da montagna, di cui solo due entrarono in combattimento, vanificò sostanzialmente questo vantaggio. Il livello di addestramento dell’esercito borbonico alle manovre era considerato buono, come anche buono dimostrò di essere il morale nel corso della battaglia, ma mancava sia per la truppa sia per la maggioranza degli ufficiali qualsiasi effettiva esperienza di combattimento se non operazioni di polizia per disperdere bande male organizzate e poco combattive di insorti. L’organizzazione dei reparti e le tattiche di impiego erano sostanzialmente quelle del periodo napoleonico ma con un’attenzione particolarmente rilevante alle truppe leggere adatte a operare in formazioni aperte su terreni accidentati, come era ragionevole aspettarsi da un esercito con compiti prevalentemente di sicurezza interna su un territorio largamente impervio e scarso di strade come quello del Regno delle due Sicilie. Eroismo o tradimento? Battaglia o pagliacciata? Se il 15 maggio 1860 il generale Francesco Landi si fosse calato la testa dei suoi soldati pronti all’ attacco, forse l’ epopea dei Mille sarebbe finita lì, sui fianchi sassosi di Pietralunga, nella collina del Pianto dei Romani coltivata a terrazze, a due passi dalle rovine di Segesta. Il fatto è che la vittoria piombò addosso ai garibaldini inaspettata, preceduta dalla tromba borbonica che suonava la ritirata, proprio quando meno se l’aspettavano. I Mille non credevano alle loro orecchie, molti non capirono neanche che cosa stava succedendo, e in quegli attimi di sbigottita euforia qualcuno gridò perfino al miracolo. Un passo indietro. Il 14 maggio, domenica, mentre Garibaldi proclamava Salemi capitale d’ Italia nel nome di Vittorio Emanuele, lo stato maggiore dell’esercito borbonico ordinava al generale Landi, acquartierato ad Alcamo, di andare incontro agli invasori. Così Landi aveva lasciato Alcamo con le sue truppe e si era fermato nei pressi di Calatafimi per fare riposare i soldati, inviandone alcuni in ricognizione verso Salemi. Intorno alle nove del mattino seguente, i due schieramenti, separati da una vallata, si guardarono in faccia per la prima volta. Il maggiore Michele Sforza, che comandava una delle tre colonne, aveva 800 uomini con due cannoni e quaranta cavalleggeri. Da lontano esaminò gli avversari che non portavano divisa, sembravano galeotti, combattenti da strapazzo. Stessa impressione ne ricavò Landi, al quale, quando vide apparire i garibaldini sulla testa delle colline di fronte, venne in mente di fare compiere alle sue truppe dei movimenti in ordine chiuso: escamotage psicologico per impressionare il nemico. Dopo uno scambio di messaggi sonori, Garibaldi ordinò di issare il tricolore e impartì gli ordini di battaglia ai suoi uomini schierati alla bersagliera, niente fuoco a distanza, il fucile con la baionetta innestata per combattimento corpo a corpo. Così senza rispondere agli spari, le camicie rosse risalirono la collina coltivata terrazze, inseguendo il nemico. A ogni sbalzo riprendeva la lotta a colpi di schioppi e di pietre. Garibaldi combatteva in prima linea, con la sciabola sfoderata, e nel frattempo incitava i suoi. Un volontario, Daniele Piccinini, lo coprì col suo mantello per nascondere la camicia rossa che attirava le fucilate. E un altro, Augusto Elia, gli si mise davanti quando si accorse che un soldato borbonico lo stava prendendo di mira, e fu ferito gravemente. Del resto i fucili dei cacciatori napoletani dell’ottavo reggimento coprivano una distanza di mille passi e quelli dei garibaldini trecento. In ogni caso, più che di uno scontro ordinato si trattò di una schermaglia fatta di attacchi e contrattacchi isolati. Un polverone fatto di estenuanti corpo a corpo, senza uno straccio di logica e di strategia, uno scontro senza né capo né coda. La confusione fu tale che a un certo punto perfino l’impavido Bixio, con l’uniforme da colonnello piemontese tutta coperta di polvere, suggerì a Garibaldi di ordinare la ritirata. Ma pare che l’eroe tuonò: “Qui si fa l’Italia o si muore”. Comunque i Mille riuscirono a spezzare la prima linea del nemico e continuarono a procedere in avanti. Garibaldi, a piedi, rifiutò di salire sul cavallo del colonnello. Man mano che le sue truppe avanzavano, quelle regie salivano più in alto. Si andò avanti così per un po’. Certo i borboni, che dall’alto cominciarono a far rotolare massi e pietre, non si aspettavano una resistenza tanto rabbiosa. Ma le file delle camicie rosse, stremate e senza più cartucce, si muovevano a casaccio. E, nonostante fossero state infittite da un nugolo di volontari attardatisi nelle retroguardie, i borbonici erano comunque numericamente superiori. Ed erano proprio sul punto di schiacciare definitivamente il nemico, sulla cima del colle, quando accadde l’incredibile, i soldati del Re abbandonarono in fretta le loro posizioni e s’ incamminarono verso Palermo, lasciando sul campo trenta morti e 150 feriti. Nel caos uno di loro domandò in dialetto al suo comandante se avessero vinto oppure perso. E addirittura il maggiore Sforza credeva che Garibaldi fosse morto. Ma Garibaldi era vivo e vegeto, abbattuto soltanto dal fatto di dovere contare 32 caduti, i migliori, un mucchio di feriti, tra cui Menotti, colpito a una mano, e Bandi, che addirittura venne dato per morto tanto era sfigurato in volto, e una decina di morti e una quarantina di sfregiati tra i picciotti. I borbonici rientrarono a Calatafimi. Landi decise di abbandonare la posizione, anche perché aveva ricevuto da Palermo l’ordine di rientrare, terrorizzato dalla partecipazione del popolo, infatti numerose bande si erano via via accumulate nei dintorni del luogo della battaglia, tutta gente di montagna, abili a stare in sella, con lo schioppo di traverso sulle spalle e pugnali e rivoltelle nella cintura dei pantaloni. Insomma, l’Italia si fece ma la domanda rimane: perché un esercito ben addestrato se la svignò a gambe levate davanti a dei giovanotti stanchi morti e male armati? E il vecchio Landi, 67 anni, che il magnanimo Re Franceschiello aveva lasciato in servizio nonostante fosse in età da pensione fu un traditore o era solo un codardo incapace? Alcuni propendono per la seconda: l’ufficiale borbonico era un vigliacco, e Garibaldi un eroe capace di capovolgere da solo una situazione disperata. Sarebbe stata infatti la sua voce a risuscitare le forze spente di quei ragazzi. Non solo: l’ufficiale napoletano era pieno d’ acciacchi, tanto che per battere qualche decina di chilometri aveva impiegato sei giorni e per di più era arrivato in carrozza sul luogo del combattimento, durato in tutto poco più di quattro ore. Inoltre sarebbe stato proprio lui a demoralizzare le truppe regie, offrendo un pessimo esempio ai suoi soldati. Addirittura, a quanti protestarono chiedendo a gran voce di combattere, Landi avrebbe minacciato di fucilarli a uno a uno. E in ogni caso, pare che il generale napoletano fosse rimasto a corto di munizioni perché non aveva messo nel conto una difesa tanto accanita da parte di quegli straccioni e malandrini. Resta il fatto che all’indomani dei fatti di Calatafimi una commissione militare ne dispose la degradazione e la collocazione a riposo, e così Landi venne confinato a Ischia in attesa di un processo che con il crollo del regno di Francesco II non fu mai celebrato. Altri insistono invece sulla storia del tradimento. Perché nel marzo dell’anno successivo, dunque a cose fatte, ad annessione avvenuta, il generale si presentò al Banco di Napoli per riscuotere una polizza di 14 mila ducati, tanto sarebbe costata la ritirata ordinata a Calatafimi. Ma ecco il colpo di scena e per Landi non solo di scena. All’ atto di incamerare il bottino, la notizia venne riportata anche dalla rivista dei Gesuiti “La Civiltà Cattolica” e dal giornale “Il Cattolico” di Genova e un impiegato della filiale del Banco si accorse che la cedola era sfacciatamente falsa. Nel senso che di ducati ne valeva 14 e non 14 mila. Una miseria. Che all’ anziano ufficiale costò il brutto ictus che lo portò alla morte. Anche se prima di andarsene imprecando contro quel ladro di Garibaldi, il generale fece in tempo a lavarsi la coscienza confessando di avere ricevuto il titolo dall’ Eroe dei Due Mondi in persona. La rivelazione fu poi smentita da un figlio di Landi, Michele, che scrisse a Garibaldi e, naturalmente, fu smentita dallo stesso Garibaldi
Favria 15.05.2020 Giorgio Cortese

Nella vita quotidiana ci sono cose che ci vengono date in prestito o per brevi periodi, e cose che ci vengono donate per sempre. Noi tutti abbiamo tra le mani una scheggia di valore inestimabile che somiglia alla Primavera, la voglia di rinascere!

Toki e Beccogiallo.
Il gatto Toki è sempre a caccia nel parco, si mette in agguato, sta fermo e poi si avvicina di soppiatto, per afferrare con un balzo il merlo Beccogiallo. Il parco pubblico Martinotti è la sua riserva di caccia e parco giochi. Dopo un po’ di tempo sceglie sempre un lugo della siepe che reputa promettente e aspetta pazientemente. Una volta individuata la preda che risponde al nome di Beccogiallo, un bellissimo merlo che ha il nido in un alberto li vicino. Toki si avvicina di soppiatto. Utilizzando ogni nascondiglio disponibile, un ciuffo d’erba alta, dietro ad un tronco di un albero, anche che se il suo nascondiglio preferito per cercare di ghermire la preda stando in agguato è la siepe. E’ uno spettacolo nel seguirlo nei movimenti con lo sguardo, le zampe posteriori che si flettono lentamente all’indietro e in un attimo la posta è finita, eccolo con la coda dritta e tesa all’indietro Toki balza in avanti facendo uno magnifico salto, ma Beccogiallo che fa lo gnorri con un frullo d’ali vola via e si sposta qualche metro più in là. Beh direte anche oggi la caccia è andata male, ma poco dopo riprendono gli stessi movimenti con Toki che dissimulando l’avvicinamento si prepara al balzo calcolando che le zampe posteriori possano arrestare il salto appoggiando per prime per terra, mentre quelle anteriori devono agguantare la preda e… di nuovo Beccogiallo sfugge e si posa su di un ramo. Sul basso ramo Beccogiallo trilla la sua gioia spensierata in queste calde giornate di Primavera. Ma poi vedo che Toki e Beccogiallo dietro la grande quercia patriarca del parco che giocano tra di loro, ma allora i due si conoscono, si divertono insieme e corrono in giro per il parco, incuranti dei commenti di madama Tortora e del signor Ghè, una bellissima ghiandaia che poco dopo se ne va via sdegnato da quell’amicizia che non capisce o non vuole capire. Addirittura Toki lascia che Beccogiallo gli si sieda sulla testa e si aggrappi alla sua pelliccia. Nella vita tra gli esseri umani e gli animali esistono amicizie speciali che ci riempiono la vita e durano anni. Durano perché quegli amici che ci siamo scelti sono i più fedeli, i più leali e i più affezionati, scorrono tranquille senza litigi e incomprensioni insanabili, amicizie in cui ci si capisce con uno sguardo senza necessariamente usare la parola, e questo gatto e merlo ne sono il fulgido esempio. Ciao Toki, quando da casa Ti osservo mi dai sempre un brivido, perché stai osservando qualcosa che io non riesco a vedere. Gli occhi dei gatti sono sono due finestre dietro le quali lui ci osserva e scruta i silenzio e forse nella sua immobilità fissando un punto, forse sta creando una poesia. La loro giocosa letizia è passata dai miei occhi al mio sangue e dal mio sangue a questo foglio di carta che mi serve per scrivere questo racconto
Favria, 16.05.2020 Giorgio Cortese

Penso che questo è un virus che dovrebbe colpire tutti, ci renderebbe più forti: si chiama amore. Quella forza per la vita che ognuno porta dentro, ma che pochi hanno il coraggio di mostrare fuori.

I Burgundi, Nibelunghi dal mito alla storia.
Nel corso dei secoli l’italico stivale, e con esso il Piemonte sono stati una terra di passaggio e di conquista per molti eserciti stranieri e per molti popoli invasori. Insomma una terra di frontiera, punto-chiave di passaggio per il valico delle Alpi e per l’accesso nella Pianura del Po, non poteva non suscitare bramosie nei cuori di quei condottieri che per secoli si contesero il dominio della penisola italiana. Oggi vi parlo dei Burgundi protagonisti nel 406 d.C. della prima terribile invasione barbarica: le orde dei Burgundi calarono sulla Savoia e sul Piemonte settentrionale, mettendo a ferro e fuoco tutto ciò che incontrarono sul loro cammino. I Burgundi, Burgundes, cioè uomini alti facevano certamente parte etnicamente del ceppo germanico orientale e, in una prima fase stanziale in occidente, dovevano, come molte altre tribù, essersi stabiliti in Scandinavia come affermava il poeta e ricercatore di miti nordici Viktor Rydberg, 1828–1895, che si basava su un’antica fonte medioevale: Vita Sigismundi. Questo piccolo popolo era sconosciuto agli antichi romani e non viene nominato dallo storico rtomano Tacito sui Germani. Pare che i burgundi abitavano prima della loro migrazione l’isola di Bornholm, che nella forma del Norvegese antico era detta Burgundarholmr, l’isola dei Burgundi. Poi intorno al 300 d.C. succede qualcosa, forse una carestia dovuta all’inasprirsi progressivo delle condizioni climatiche, o la pressione dei più potenti Goti ed i Burgundi emigrarono massicciamente verso le aree continentali orientali, in particolare attorno alla Vistola, nell’attuale Polonia. Era iniziato anche per i Burgundi, il loro ingresso nella storia ufficiale, dalle nebbie del mito, venendo a contatto con quell’insieme fluido di popolazioni dal cui gioco di movimentazione territoriale si svilupparono quelle che chiamiamo invasioni barbariche. Molto probabilmente furono determinati i movimenti migratori provocati dai Goti, a loro volta sotto la pressione delle popolazioni di origine asiatica a frammentare i Burgundi in due tronconi ben distinti: una piccola parte della tribù si mosse verso sud, raggiungendo le coste del Mar Nero, ma il grosso della popolazione, che, per la sua esiguità numerica, aveva ben poche possibilità di opporsi all’onda d’urto della federazione gotica, si stabilì sulla riva sinistra del medio Oder in quella regione che successivamente i Longobardi, insediandosi più o meno nella stessa zona, chiamarono Burgundaib. I primi a sfondare il limes romano sul Reno, gelato, furono gli Alemanni nel 259/260 d.C.. Con questo sfondamento, il passaggio verso le aree settentrionali dell’Impero era pressoché libero e non è, dunque, un caso che già attorno al 270 troviamo una primissima avanguardia burgunda che entra a contatto con i romani, andando ad occupare le zone abbandonate della regione fra Reno e Meno. Alla fine del IV sec. i Burgundi scalzarono gli Alemanni dalla regione compresa fra il Taunus e il Neckar e raggiunsero il Reno, superandolo in massa dopo l’incursione di Vandali, Svevi e Alani del 406/407 d.C. A questo punto, l’Impero fu obbligato ad accettarli come federati, alleati, con l’incarico di proteggere il limes renano. Verso il 430 d.C. i Burgundi della riva destra del Reno sconfissero un reparto di Unni, ma poco dopo caddero sotto la dominazione di questo popolo, dal quale adottarono l’usanza di deformare artificialmente il cranio e, nel 436d.C. gli Unni, probabilmente alleati di Flavio Ezio, posero fine al regno burgundo di re Gundahar sul medio Reno, questa vicenda darà origine alla leggenda dei Nibelunghi, il ciclo o nibelungico è il più ampio e famoso fra i cicli eroici germanici. Ha due fulcri principali e indipendenti: l’eccidio dei Burgundi sopra citato e la morte di Sigfrido, alla cui base si porrebbe una delle tante uccisioni a tradimento della storia merovingia). Queste due leggende, con le loro ramificazioni, finirono con il costituire un solo grande ciclo soltanto nel 13° sec.. tornando ai superstiti Burgundi, il generale romano Ezio, sette anni dopo destinò gli scampati alla Sapaudia, il paese degli abeti che divenne il loro nuovo regno. La Sapaudia corrispondeva solo parzialmente all’odierna Savoia, per assicurare ai romani tramite loro i passi alpini ed il collegamento Rodano, Reno. Come in molte delle tribù germaniche, le tradizioni legali burgunde permettevano l’applicazione di leggi separate per etnie separate. Perciò, in aggiunta alla Lex Gundobada, dal re Burgundo Gundobado che emanò anche una serie di leggi per i sudditi romani del regno burgundo, la Lex Romana Burgundionum, Legge Romana dei Burgundi. Traccia del loro passaggio è il nome della regione storica francese, l’odierna Borgogna, dall’antico Burgundia. Tra il 501 ed il 507 i Burgundi si convertirono dall’eresia ariana al cattolicesimo portandoli in rotta di collisione con gli Ostrogoti, i Goti orientali. I re merovingi sfruttarono l’occasione attaccando il regno burgundo e conquistandone la parte settentrionale, mentre Teodorico con gli ostrogoti occupò una parte del loro regno. Nel 534 d.C. il regno Burgundo venne definitivamente travolto e cessò di esistere e da quel momento in poi, i Burgundi vennero inglobati dai Franchi, dei quali seguirono le sorti. Secondo una teoria di alcuni studiosi l’odierno Francoprovenzale una lingua parlata in tre Stati, Francia, Svizzera ed Italia, potrebbe avere una origine burgundica, l’altra è quella che riconosce nel Francoprovenzale una forma arcaica di Francese. I Burgundi parlavano una loro lingua germanica, che fu presto dimenticata ma che condizionò la parlata delle zone dove vennero ad insediarsi. Nello stesso modo e nello stesso periodo, nel nord della Gallia, un altro popolo germanico, i Franchi, fondò un regno destinato ad unificare il Paese e la sua lingua si mescolò con il latino locale, dando origine alla lingua d’Oil, poi chiamata Francese. Nella parte meridionale, l’insediamento delle popolazioni germaniche fu più debole e si continuò a parlare il latino locale, parlato dalla popolazione gallo-romana. Questa lingua avrebbe originato la lingua Occitana o Provenzale. Una questione assai intricata, dove probabilmente non mancano i buoni argomenti da entrambe le parti. A favore della teoria burgundica viene segnalata la frequenza nell’area francoprovenzale di nomi di luoghi che terminano in -ans. Questa desinenza sarebbe caratteristica dei luoghi colonizzata dai Burgundi, in origine la desinenza sarebbe stata -ingas. Ebbene, si trovano i toponimi di Bessans, Lans le Bourg, ma anche Lanzo, ma sono solo supposizioni. I Burgundi nella storia appiano sfuggevoli e paradossalmente, è proprio in questa “sfuggevolezza” delle caratteristiche burgunde che risiede la grandezza di questo popolo: formato da poche migliaia di unità, accerchiato da tribù e regni sostanzialmente ostili, la tribù burgunda comprese rapidamente che la sola possibilità di sopravvivenza era data dalla flessibilità e dalla permeabilità delle sue istituzioni e dalla capacità di adattamento nel mescolarsi con le popolazioni delle zone di migrazione. Una lezione sempre attuale.
Favria, 17.05.2020 Giorgio Cortese

Nella vita quotidiana non devo solo aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia.

Il gateau
Uno dei piatti più amati e tipici della tradizione culinaria partenopea, tramandata di generazione in generazione, di nonna in madre in figlia, di cui spesso ignoriamo le origini e la storia. All’origine del gateau di patate, italianizzato spesso in gatò o gattò, c’è il nome indubbiamente francese di una torta dolce. Un termine il cui uso è giustificato appunto dalla genesi della ricetta, che affonda le radici nella tradizione culinaria francese. Una tradizione culinaria che tra ‘700 e ‘800 ha contaminato la cucina di corte del Regno delle Due Sicilie. Dopo il 1768 infatti, quando la dinastia Borbone si unì a quella degli Asburgo con il matrimonio di Ferdinando I e Maria Carolina, Napoli venne “contaminata” dalle più grandi cucine europee, prima fra tutte quella francese. L’illuminata regina affidò la gestione delle cucine a cuochi di alto rango chiamati all’epoca monsieurs. Una moda che si diffuse anche tra le famiglie più aristocratiche, con il monzù, la versione napoletana di monsieur, che divenne il protagonista indiscusso di cene e banchetti.Questi monzù preparavano piatti di origine francese adattati al gusto e a prodotti tipici napoletani, ed è proprio da questa fusione di saperi, arti, gusti e sapori che nasce il gateu, a Napoli, con ingredienti tipici della cucina locale come il salame napoletano e la provola fresca, formaggi e salumi tradizionali. Ingredienti che ancora oggi regnano nelle sue ricette, di cui ogni famiglia napoletana si vanta di avere quella originale. Eppure, sebbene nato a Napoli, potremmo dire che l’origine del gateau di patate è in certo senso napoletana-e-francese, perché nasce da un incontro. L’incontro a corte dei loro gusti e delle loro tradizioni. Insomma, un’origine indubbiamente regale per uno sformato di patate destinato ad essere amato per secoli, e secoli!
Favria, 18.05.2020 Giorgio Cortese

Nella vita quotidiana la speranza è un arcobaleno che scaccia via il grigio delle negatività e del pessimismo.

Da budriere a bautièire
La parola italiana budrière e o bodrière deriva dal francese baudrier di origine tedesca ed era una striscia di cuoio che nelle milizie dei secoli passati si portava ad armacollo e serviva ad appendervi la spada o la sciabola, e in qualche caso, se disposta davanti, la bandiera o il tamburo. Nella prima uniforme dei Carabinieri si designava con questo nome dal francese baudrier, il cinturone in buffala bianca, cuoio, con placca in ottone recante lo stemma del sovrano, usato per sostenere sul fianco la sciabola del carabiniere a piedi, che lo portava dalla spalla destra al fianco sinistro, incrociato con la bandoliera e la giberna, che scendeva dalla spalla sinistra al fianco destro. Venne abolito il 20 settembre 1870. Da questo lemma potrebbe anche derivare la parola piemontese bautièire, vacillante, che ricorda il ciondolare della spada da li la parola bautié con il significato di dondolare sull’altalena e nella culla o anche di vacillare o barcollare o anche il rimandare una cosa da fare, bautiss. Tornando alla parola iniziale budrère deriva dall’antico tedesco balderich, simile al sassone belt e che provengono forse dal latino balteus, tracolla, ma forse ho già troppo, bavardè, chiacchierato. Interessante infine questa ultima parola piemontese che è di origine francese dal lemma bavarder, espresso in forma negativa di chi come me parla troppo e di cose inutili come adesso sto facendo io.
Favria, 19.05.2020 Giorgio Cortese

Nel cammino della vita ci sono speranze che non muoiono mai, sono sempre pronte a lottare fino alla fine.
giorgioCorteseAlpini