Le radici cantano ancora (Borgata Pasqualone SPARONE ) di Marino Pasqualone

Radici è una borgata che porta il tuo nome: anzi, il tuo cognome.
E si trova lassù, persa tra i boschi dell’invèrs di Sparone, neppure troppo lontana dalla strada: ci si arriva a piedi in meno di un’ora dalla strada carrozzabile che sale ad Alpette.
Ti sei ripromesso tante volte di salirci quanto prima, ma intanto gli anni passano inesorabili e quell’appuntamento continua ad essere rimandato senza una valida spiegazione.
Eppure, nel frattempo, di villaggi abbandonati sulle montagne tra l’Orco e la Soana ne hai raggiunti a decine, alcuni anche più volte, ma, chissà perché, i tuoi passi non hanno mai seguito il sentiero che porta a quel grappolo di case che sembrano esser lì ad aspettarti da sempre.
Intanto sono passati cinquant’anni, ed il tempo e gli affanni della vita ti hanno quasi fatto dimenticare la loro esistenza, che ogni tanto però riaffiora ancora nella mente quasi fosse un’antica nostalgia, ma che appare inspiegabilmente irraggiungibile, probabilmente inesistente, come la mitica “Shangri-la”.
Ma poi accade che un giorno ti capita tra le mani il primo numero dell’Arcalùs, una pubblicazione del vulcanico amico Elio di Sparone, e le immagini di quella borgata te le trovi finalmente davanti come una promessa ed una ferita che, per quasi mezzo secolo, ha continuato silenziosamente a sanguinare ai margini del tuo cuore.
E senti improvvisamente che rimandare ancora quell’appuntamento ora non è più possibile, e che è venuto finalmente il momento di salire lassù, per onorare quell’appuntamento da troppo tempo posticipato.
Ed ecco che, in un pomeriggio assolato di inizio primavera, ti incammini finalmente con l’intera famiglia lungo quei sentieri che, a differenza di quelli di Guccini che “non portano mai a niente”, ti conducono invece in un mondo primordiale fatto di pietra e legno, inciso dal sudore e dalla fatica di intere generazioni di montanari che, anche da questi aspri ed avari precipizi boscosi che salgono verso Cima Mares, avevano saputo ricavare di che sopravvivere.
Il sentiero sale ripido senza far sconti alle gambe ancora intorpidite dall’inverno appena scrollato di dosso, e dietro ogni curva aspetti di trovarti finalmente faccia a faccia con il tuo passato, con le tue radici, con quelle case che si chiamano come te e che adesso, chissà perché, ti è venuta la smania di poter al più preso vedere.
Quasi che l’infinita attesa di questo momento sia stata null’altro che un lungo sogno durato cinquant’anni, o forse inspiegabilmente solo lo spazio di una breve notte.
Ed alla fine eccole lì, improvvisamente, davanti ai tuoi occhi quasi increduli, le case di borgata Pasqualone: con i loro acciacchi, in alcuni casi evidenti, distese sul piccolo pianoro ormai quasi completamente invaso dagli alberi, ma sul quale certamente un tempo si aprivano luminosi prati. Dietro l’ultima abitazione ecco che dal dirupo terrazzato lo sguardo può scendere libero verso Sparone, la terra dei miei avi ma anche un poco scenario del mio personale passato, e quasi dirimpetto svetta sull’altro versante della valle la grande conifera di borgata Camùs, dove mio nonno Michele visse a fine ottocento ed esercitò in gioventù il mestiere di “picapére”.
Ed a borgata Pasqualone scopro anche l’esistenza, del tutto inusuale in valle dell’Orco, di un piccolo “rascard” di legno coperto a lose che svetta sopra un grande masso sporgente dal suolo, forse un tempo utilizzato come ricovero per le derrate alimentari: purtroppo si presenta attualmente in condizioni di conservazione molto precarie e, senza un intervento di restauro conservativo, credo non rimarrà in piedi ancora a lungo.
Ancora alcuni passi ed ecco che, lungo il sentiero che sale alla vicina S. Anna, appare il grande “Pilone dell’Addolorata” di borgata Pasqualone, quasi una piccola cappella affrescata che sorge sopra un masso erratico e la cui costruzione originaria risale al lontanissimo 1535, quasi cinque secoli fa !
“ Questa cappelletta – ha scritto Elio Blessent sull‘Arcalus – aveva un conto proprio ed era amministrata da apposito tesoriere… da questo è possibile anche spiegare la bussola per le elemosine con la fessura sul cancello in legno del pilone… La festa dell’Addolorata continuò ad essere celebrata fino alla prima metà degli anni trenta. Don Moglia scrive sul registro, nel 1936: “La festa dell’Addolorata da alcuni anni nessuno si è più curato di farla celebrare”. Da lì, gradatamente, per il pilone dei Picco sotto il titolo della Beata Vergine dei Sette Dolori, inizia un lento periodo di degrado e decadimento”.
Non può ovviamente mancare una foto ricordo davanti al pilone con i miei figli Erik e Kristian: d’altronde, chissà da quanti anni ormai non si vedevano più tre… Pasqualone in un colpo solo al cospetto del pilone di borgata Pasqualone !
Poi la salita riprende, per raggiungere la soprastante borgata Sant’Anna – Aia di Pietra, con la sua imponente chiesa ed il campanile che svetta solitario su una rupe vicina, con le sue case un po’ cadenti ed un po’ ristrutturate, con la sua panoramica vista che spazia sulla bassa e media valle dell’Orco e sui valloni boscosi che salgono verso Mares e le creste del Monte Soglio.
Ed infine, con un ultimo balzo, ecco la vicina borgata Sanbôirsëint, con le sue case addossate alla mulattiera che sale verso le borgate alte di Ciabot, Apiatour e Ambarten, e dalla quale la cresta altalenante che unisce la Cima Tiriol al Truc Bose appare come un sipario boscoso dietro ai cui strappi si intravede la piramide ancora innevata del Monte Colombo.
Ancora un po’ di sole in discesa nell’ampio ed accogliente cortile della Chiesa di S. Anna, cullati dal rumore della fontanella da cui zampilla un’acqua gelida, figlia delle nevi invernali che ancora indugiano nelle vicine forre ombrose, e poi è tempo di tornare a valle.
Ripassiamo in mezzo alle case di Pasqualone già inghiottite dall’ombra del bosco, ma il villaggio silenzioso adesso, chissà perché, mi appare quasi estraneo ed ostile, mentre soltanto poco più di un’ora prima mi era sembrato di conoscerlo ed amarlo da sempre.
Eppure questa sensazione di improvvisa repulsione, a volte addirittura di sottile ed inspiegabile angoscia, mi è già capitata di provarla più volte salendo nei numerosi villaggi abbandonati delle nostre valli che, nelle mie peregrinazioni, ho avuto modo di raggiungere.
Quasi che, dopo un po’ di tempo trascorso tra quelle case spesso in sfacelo, il muto grido di dolore che emanano quei muri da troppo tempo gelidi diventi un fardello quasi insopportabile, come il peso schiacciante di un passato lasciato appena dietro l’angolo ma che noi, figli della civiltà tecnologica e dei consumi, possiamo soltanto cercare di intuire, ma che non riusciremo davvero mai a comprendere fino in fondo.
Laggiù in fondo al vallone solcato dal rio Mares ci sono la strada, le auto, le televisioni, i computer, internet e le altre mille “comodità” a cui siamo ormai così abituati da crederle tutte indispensabili e, soprattutto, disponibili da sempre e per sempre.
Ma così non è stato in passato e così potrebbe tornare a non essere in un futuro più o meno lontano.
Intanto lassù nel bosco le case di Pasqualone e degli altri cento villaggi perduti sulle montagne tra l’Orco e la Soana aspettano che il nostro destino, qualunque esso sia, si compia.
E quand’anche esse saranno diventate solo più ammassi informi di pietre invase dagli alberi, il silenzio che le avvolge non sarà mai totale per chi saprà ascoltare la loro voce con il cuore. Perché, come ebbe a scrivere un valligiano-poeta delle montagne cuneesi in un suo libro, “le radici cantano ancora”.
Marino Pasqualone (Articolo pubblicato su “L’Arcalus” n. 7 – Gennaio 2013)pasqualone2pasqualone1