L’angusta nostalgia serale. – L’umana ingratitudine. – Il polemogeno gozzovigliare. – Apostrofare nel tranello! – Gli esempi trascinano. – Il Maggiociondolo, l’albero delle streghe!. -Un semplice operaio…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

L’angusta nostalgia serale.
Per descrivere quanto scritto nella frase iniziale forse devo spiegare che il termine angusta, che deriva dal latino, significa stretto e anche gretto. Ma badate bene che il termine latino angustus deriva dalla parola angere che significa stringere. Angusto è una splendida parola in cui un concetto dello stato dell’animo si sovrappone ad una sensazione. Dalla medesima parola nascono i termini di angusto, angustia e angoscia. L’angusto è uno stretto che toglie l’aria, che limita il movimento e il respiro. Può essere angusta una stanzetta d’albergo di infimo grado la cui finestrella si affaccia su un muro, o un vicolo stretto fra pareti che quasi si toccano e in cui non arriva luce né un alito di vento, e un discorso portato avanti da intelletti non particolarmente alati può trovarsi confinato nell’angustia di luoghi comuni. Ed è proprio in senso figurato che l’angusto acquista i colori del gretto delle idee, una mente o un giudizio che siano angusti non hanno il solo profilo di una limitatezza geometricamente stringente, ma implicano una dimensione di valore, una bassezza morale, una meschinità spesso propria della ristrettezza intellettuale, insomma di un pensiero privo di ampio respiro. E allora certe sere prima di dormine, ripenso alla mia vita e piano piano si insinua tra le pieghe dell’animo un sentimento di nostalgia. Parola dal greco, nostos ritorno a casa e algos dolore. Il dolore del ritorno. Lo ritengo un sentimento così opprimente e talmente bello, che pervade il mio animo. La parola è molto antica e così lacerante che conoscerne l’origine, mi fa rendere conto per un attimo di quanto sia universale. Ritengo il passato simile ad una candela posta a una distanza inadeguata, troppo vicina per rendermi quieto, troppo lontana per confortarmi. In quei brevi istanti la na nostalgia è la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare. In quei brevi attimi mi piacerebbe scambiare tutti i miei domani per un solo ieri. Ma purtroppo i ricordi sono dipinti nel mio animo con pastelli a c’era. Poi mi riprendo e mi rendo conto che l’angusta nostalgia è un archivio da rimuovere nei lati spigolosi dai cari vecchi giorni. Certo forse diventa sempre più facile, invecchiando lasciarmi annegare certe sere nella nostalgia che è una specie di vecchiaia. Ma quando nei miei occhi prima di dormire risplende la luce dei ricordi, prima del sonno mi lascio trasportare nel viaggio, anche se le mani rimangono vuote e così appago quel desiderio di non si so cosa.
Favria, 13.05.2017 Giorgio Cortese

Nella vita di ogni giorno non c’è gioia senza la fatica, non c’è la forza senza aver sopportato il dolore e non c’è umiltà senza gioia

L’umana ingratitudine
Una cara persona mi ha raccontato come una sua cara amica, denominata “amica del cuore” gli aveva chiesto una piccola somma di denaro per fare fronte a delle impellenti necessità famigliare. Questa persona di buon cuore e di nobile animo aveva imprestato temporaneamente la somma con la promessa che gli sarebbe stata restituita, senza nessun interesse il mese successivo. Passa un mese, passa la stagione e passa l’anno, ma della somma imprestata questa cara persona non vede nulla. Alla sua richiesta, la signora in questione non gli rispondeva oppure la minacciava pesantemente di come si permetteva fare una richiesta simile. Il prestito concesso, il temporaneo dono era stato concesso sulla parola. Questo spiacevole evento che cruccia questa cara persona sia dal punto di vista materiale che nell’animo in quanto sente tradita la sua fiducia in una persona che considerava la sua “amica del cuore”, mi ha fatto riflettere che a tutti noi è capitato di aiutare qualcuno, un amico, un conoscente, a trovare un lavoro, di sostenerlo nel momento del bisogno in modo disinteressato, e poi scoprire che la persona beneficata, anziché esserci riconoscente non solo dimentica quanto abbiamo fatto per lei, ma diventa fredda e si comporta verso di noi con becero rancore. Qui allora mi ricollego a quanto letto di Milton nel “Il paradiso perduto”, dove Satana afferma che è ribellato a Dio per il peso insopportabile della riconoscenza. Cos’è il peso della riconoscenza? Come può la gratitudine diventare insopportabile? Il caso più semplice è quello dell’invidia. Satana voleva di più, non accettava la sua condizione di secondo. Una volta ho aiutato un collega agli inizi della mia carriera lavorativa, ma questa persona era rosa dall’invidia, e non sono mai riuscito a spiegarmi il perché. La cosa buffa è che un giorno, questa persona corrosa dall’invidia, uscendo dal cinema con la fidanzata venne sorpreso da quei violenti temporali estivi, e diede la colpa di essersi bagnato al sottoscritto! Cribbio non pensavo di avere questi meto poteri, magari! Da allora ho imparato che è pericoloso mettersi troppo in evidenza perchè scateni l’invidia dei miei colleghi. Ma la mancanza di riconoscenza non è dovuta solo all’invidia. Ogni volta che io faccio per un altro qualcosa di più del dovuto, metto inconsapevolmente sempre in moto dei meccanismi che possono essere positivi e negativi. Penso ad esempio l’episodio capitato alla cara persona in premessa, l’offerta di denaro, il dono, fatto per amicizia e per aiuto, con disinteressata generosità, crea quasi sempre il bisogno di ricambiare. E se io esagero in generosità posso mettere l’altro in imbarazzo perché non sa come ricambiarmi e si domanda cosa voglio in cambio da lui, pensa quasi subito a quali favori chiedo. Poi ci sono i “banali” che reagiscono nel modo opposto. Se aiuto un “banale”, questi lo considerano un dovere da parte mia e se smetteto di farlo, mi criticano e mi accusano, e anche questo purtroppo mi è successo. E allora che fare? Bisogna sempre tenere a mente che in tutti i casi il risultato della mia generosità sarà la mancanza di riconoscenza. Perciò quando decido di aiutare una persona quando ha bisogno, agisco così solo per la mia morale, perché lo ritengo giusto, senza aspettarmi nulla in cambio, come quando dono il mio sangue per salvare delle vite che neanche conosco. Se poi la persona beneficiata dal mio aiuto mi ricambia con sincera riconoscenza, beh allora sono io che ricevo con il suo comportamento un dono da un animo generoso.
Favria 14.05.2017 Giorgio Cortese

Certi giorni, ma sono rari quando penso di avere qualche idea più degli altri, do agli altri queste idee se le accettano. Perché ogni giorno devo fare mio quanto diceva Sant’Agostino: “Dammi quello che comandi, comandami quello che vuoi.”

Il polemogeno gozzovigliare
Polemogeno lemma che significa che genera guerra, conflitto composto dal greco polemos, guerra e dal suffisso, geno in greco genes, che genera. Ho trovato questa parola in un libro e ho faticato a capirne il significato in quanto non si trova sui dizionari, e in effetti è abbastanza rara da trovare. È un termine che sembra difficile e aristocratico ma la sua costruzione è semplice e lineare ed il suo significato trasparente rappresenta una risorsa utilissima per spiegare il concetto del titolo sopracitato. Si dice polemogeno ciò che ha l’attitudine a creare conflitto, a generare guerra, come i nazionalismi di inizio novecento o le dittature che hanno portato alla seconda guerra mondiale, ed adesso fli –ismi che esasperano con il loro fanatismo e tutto avvelenano. Adesso è polemogena l’esasperazione della crisi con la Corea del Nord e la virata autocrate in Turchia. Ma è anche polemogeno il cercare di stare sempre in sella con un approccio arrogante, dove certe persone tirano fuori il peggio del loro essere e sfasciano ogni rapporto di civile convivenza, d’amicizia e di legami di sangue, per la ricerca totalizzante di beni esclusivi. Insomma il loro agire è un continuo gozzovigliare, fare sempre bisboccia a spese nostre purtroppo…e noi paghiamo!
Favria 15.05.2017 Giorgio Cortese

Nella vita di ogni giorno il perdonare senza dimenticare è come appendere un chiodo all’animo. Farà sempre male e per vivere sereni devo sforzarmi di dimenticare.

Apostrofare nel tranello!
Un’apostrofe, rivolgersi a qualcuno, o invece fare far seguire una parola da un apostrofo. Nel primo caso la parola deriva dal greco apostrophé, apostrofe, nel secondo dal greco apòstrophos, volto indietro, entrambi derivati di apostrépho, volgere altrove. Mi guardo bene dall’apostrofare l’articolo maschile “un”, mentre apostrofo il tizio che ha buttato a terra una cicca suggerendogli di raccoglierla. Perché? La faccenda sembra complessa ma non lo è. Sono infatti davanti a due parole diverse, che pur avendo una radice comune hanno preso vie molto diverse, per poi riconfluire in una uguale forma. Una, meno interessante, prende le mosse dall’apostrofo, quale segno grafico (‘), impiegato in italiano per indicare un’elisione un’, l’, quell’, grand’, e in qualche caso un troncamento, be’, po’, da’, ma non è questo il luogo per parlare sugli gli usi dell’apostrofo. Più brillante è l’apostrofare che nasce dall’apostrofe. Ma che cos’è l’apostrofe? Si tratta di una figura retorica davvero vigorosa, che consiste nell’interruzione di un’esposizione, di una narrazione, per far rivolgere un personaggio o la stessa voce narrante a un interlocutore, ideale o meno. L’etimologia la disegna come un “volgere altrove”, che spezza e devia verso qualcuno il discorso. È una figura ricorrente in poesia, e cito Dante quando si scaglia in invettive contro persone e città intere: “Ahi, Pisa, vituperio delle genti”, oppure “Godi, Fiorenza”. Ma anche nella Canzone di Orlando, in cui proprio la voce di Orlando rompe il racconto rivolgendosi alla sua spada Durlindana, che con le ultime forze sta cercando di spezzare per non farla cadere in mano nemica, ma anche in tribunale si ricorre volentieri all’apostrofe quando nell’arringa non ci si rivolge al giudice, ma alla controparte o all’assistito. Fare apostrofi, fuori dalla retorica forense, è in tutti i casi in cui ci si rivolge a qualcuno con forza, invocandolo o rimproverandolo, quasi a rompere un fluire tranquillo. Se un’auto mi taglia la strada mi viene voglia di apostrofarlo con epiteti poco lusinghieri, e anche il giocatore poco attivo viene apostrofato dai tifosi infervorati, e poi mi viene in mente De Andrè in quella famosa canzone in cui una signora “rivolgendosi alle cornute/ le apostrofò con parole argute”. Ed ecco la seconda parola tranello che significa insidia o anche piccola difficoltà non palese derivato di tranare, variante di trainare, nel senso di “trascinare in un’insidia”. Una parola che ha una sua eleganza non appariscente come il suo significato. Infatti il tranello è un malizioso esercizio d’intelligenza volto all’inganno. Un’insidia tesa ai danni di qualcuno. E l’etimologia me la spiega con un’immagine semplice, il tranello è ciò che trascina nell’inganno voluto. Da tranello deriva anche il “trainello”’, il richiamo per uccelli, e il “trainel” del francese antico, animale impagliato usato per insegnare ai falconi a cacciare. Nei libri ho letto di tranelli in cui l’antagonista cerca di far cadere l’eroe oppure delle antiche sepolture dei faraoni protette da tranelli ingegnosi. Mi viene da chiedermi allora fino a che punto certe persone abuseranno della mia pazienza e fino a che punto arriverà la loro arroganza. Badate bene negli scacchi il sacrificio del pezzo cela spesso un tranello e forse Vi preparo lo scacco matto! State sereni!
Favria, 16.05.2017 Giorgio Cortese

Io sono responsabile di ciò che scrivo e dico, non di quello che gli altri interpretano!

Gli esempi trascinano
Scriveva S. Agostino che nella vita le parole insegnano, ma sono gli esempi che trascinano ed i fatti concreti danno forza alle parole. La mia non vuole essere una lezione di omiletica, non ne sono capace. L’omiletica è il ramo degli studi teologici cristiani che si occupa dell’arte e della teologia della predicazione. L’arte dell’omiletica ricalca i temi pure trattati dalla retorica, cioè l’invenzione, disposizione, memoria e esposizione. Gli antichi sermoni cristiani erano chiamati omelie, termine derivante dal latino homilia, cioè “conversazione”. Ne voglio fare delle prediche, perché non ne sono capace e non ne ho l’autorevolezza. Certo dicono che nella vita predica bene chi vive bene, ma sicuramente è troppo facile per chi sta al sole predicare a chi rimane nell’ombra, perché così le prediche sono la forma più odiosa di moralismo. Nella vita di ogni giorno non dipende da quello che sono capace di predicare a farmi divenire giorno per giorno un vero essere umano, ma da quello che metto in pratica. Ma purtroppo certe persone non capisco se praticano in cui credono o le verità in cui credono di dover predicare?
Favria 17.05.2017 Giorgio Cortese

Io sono una che si mette in disparte e osserva. Si capiscono tante cose uscendo di scena. Vedi chi ti aspetta e chi va via… chi conta e chi no.

Il Maggiociondolo, l’albero delle streghe!
A maggio-giugno fiorisce il Maggiociondolo, che riempie spontaneamente le campagne e le colline del Canavese con i suoi grappoli profumati e dorati. Questa pianta, detta anche “pioggia d’oro” era ritenuta magica e simbolo del dubbio per i suoi semi che mentre sono innocui per cervi, lepri e conigli, ed in genere per gli animali selvatici, sono invece velenosi per l’uomo e per gli animali domestici. Il legno è duro e scuro, tanto che il Maggiociondolo è chiamato anche “falso ebano”, flessibile e resistente e nell’antichità era utilizzato per costruire gli archi, e ancora oggi nella liuteria. Tante sono le poesie e gli elementi letterari dedicati al fiore giallo e inebriante, viene citato dal poeta inglese Francis Thompson, e vi si ispira lo scrittore scrittore, il grande, J. R. R. Tolkien, quello che ha scritto “Il signore dell’anello”, per l’albero mitologico del Laurelin nel poema Il Silmarillion. Nell’universo immaginato dallo scrittore inglese i due alberi di Valinor, la terra primordiale, sono Telperion e Laurelin, rispettivamente l’Albero d’Argento e l’Albero d’Oro che illuminavano la terra dei Valar nelle ere antiche. I due alberi, nel racconto, furono distrutti, ma il loro ultimo fiore e il loro ultimo frutto furono usati dai Valar per creare la Luna ed il Sole, la prima maschile e il secondo femminile come in molti miti nordici. Secondo una leggenda di narra che in Frigia, antica regione dell’Asia Minore, vivevano delle altissime guerriere dette “magellane” e che una di queste, Maja, partorì per amore di Zeus, sul monte Cillene, in Arcadia, un figlio bellissimo e gigantesco a cui fu imposto il nome di Ermes. Durante una cruenta battaglia, però, Ermes fu ferito gravemente e la madre fuggì con lui verso Occidente dove c’era il Monte Paleno ricco di erbe medicinali capaci di guarire qualsiasi male. Quando arrivarono trovarono il monte ancora coperto di neve e quindi sprovvisto della pianta desiderata. Un contrattempo, non preventivato dagli dei ma che provocò la morte del giovane araldo divino gettando Maja in un’infinita disperazione. Il pianto di lei risuonò per molti giorni sui monti e nelle valli tanto che Zeus, impietositosi, volle dedicare al figlio un alberello dagli sgargianti fiori gialli: il maggiociondolo. Per questo motivo, sempre secondo la leggenda, il Monte Paleno fu chiamato Majella, in Abruzzo, in onore della più giovane guerriera delle Plejadi, divenendo così la sua tomba e il suo tempio. Questa pianta a causa della sua tossicità ne fa un arbusto piuttosto pericoloso se ingerito incautamente se si mangiano i semi scambiandoli per piselli. Corteccia, foglie e fiori sono anche stati causa di avvelenamento e questa pianta causa il maggior numero di casi di avvelenamento e morte nell’uomo attualmente. Nel Medioevo pare le streghe lo adoperassero per realizzare alcune bevande psicoattive che davano loro il senso dell’ abbandono del peso corporeo. Questo fatto che si può interpretare come il così detto “volo della strega”, in quanto durante i loro raduni le streghe per farsi riconoscere tra di loro utilizzando una verga di Maggiociondolo, che rappresentava l’ emblema della loro arte, simbolo del volo e della vittoria sui vincoli del corpo e della materia. Ora forse da qui nasce il mito della strega che vola sulla scopa. Infatti durante l’ Inquisizione molte “verghe sospette” furono camuffate da scope infilate in mazzi di saggina e passarono così per normali utensili. Il tronco di questa pianta non è mai diritto né grosso ma si piega e vive di stenti, contento del poco di cui dispone. Una volta da questo legno i contadini ricavavano i denti dei rastrelli, che dovevano durare un’eternità e grattare sui prati il fine per non sprecare nulla. Forse nella concretezza risiede la vera nobiltà di questa pianta, mi ricorda gli amici fedeli che rimangono nell’ombra ma sono sempre pronti ad intervenire in caso di bisogno. Legno speciale anche per la stufa, e produce un fuoco gagliardo, di un bianco incandescente che riscalda l’anima prima ancora del corpo.
Favria, 18.05.2017 Giorgio Cortese

Certi giorni la vita mi sembra che possieda tutte le doti e le qualità di una buona madre: quando vuole aggiungere, toglie.

Un semplice operaio.
Oggi pomeriggio alla domanda che lavoro fai nella vita, un caro amico mi hai risposto: “ sono solo un semplice operaio”. Questa affermazione mi ha fatto pensare a che fine ha fatto la semplicità? Sembriamo tutti messi su un palcoscenico, e ci sentiamo tutti in dovere di dare spettacolo. E pensare che le cose migliori nella vita sono le più vicine: il respiro nelle narici, la luce negli occhi delle persone che incontro nel sentiero quotidiano chiamato vita. Caro amico ricorda che, complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare e dire di potere vivere nel guscio di una noce, e sentirsi re dello spazio infinito. Grazie per la Tua semplicità, per la Tua autentica umanita, senza maschere e falsità. Grazie ancora del colloquio avuto che mi ha fatto riflettere che nella vita l’errore diffuso è pensare che il semplice sia facile, il complesso difficile. Molto spesso è vero il contrario. Lo diceva anche Ovidio duemila anni fa. “La semplicità, è cosa rarissima ai nostri tempi”. Meno male che ogni tanto, nelle esperienze della mia vita, incontro persone “semplici” che sono molto più intelligenti di tanti cosiddetti “intellettuali. Sono persone oneste e sincere come Te. Grazie mille!
Favria 19.05.2017 Giorgio Cortese

Ci sono miliardi di persone nel mondo, ma ci sono ancora più volti, perché ognuno ne ha diversi.