L’abile sartor, fré, cusinè! – Fortissimamente fragili. – La quarantina! – W le donne. – Grazie donne. – W le donne! 8 marzo. – Monatto…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

L’abile sartor, fré, cusinè!
Viveva una volta in un castello del Canavese, una volta nei vari paesi c’era i castelli con i vati signori feudali, una ragazza dalla straordinaria bellezza, al punto che tale fama si diffuse ben oltre i confini del Canavese, andando anche al di là dei monti fino in Tarantasia. Molti nobili inviavano emissari per ottenere dal padre la figlia in sposa. Il padre attese che la figlia compisse quattordicesimo anno di età per proporle di sposarsi. Una volta le donne contraevano matrimonio appena dopo l’adolescenza, durante la sontuosa festa di compleanno che avvenne nel mese di agosto nel parco del castello, illuminato a giorno dalla luce di centinaia di lanterne. Il padre chiese alla sua adorata figlia che tipo di marito avrebbe voluto. La ragazza disse che desiderava sposare uno sposo che fosse allo stesso tempo più ricco e più povero di tutti! Allora il padre mandò i suoi servitori nei vari castelli e villaggi del Canavese perché facessero conoscere i desideri della giovanissima sposa. E gli aspiranti sposi non tardavano ad arrivare, infatti tanti erano coloro che, conquistati dalla bellezza di lei, risposero all’invito. Alla fanciulla e a suo padre si presentarono tantissimi giovani conquistati dalla sua bellezza, ed i primi ad arrivare furono dei nobili, elegantemente vestiti con carri carichi di ricchezze. Questi si presentarono al cospetto della fanciulla ostentando la loro opulenza, ma alla quale mancava l’amore della fanciulla per loro. Dopo di loro arrivarono dei forti ed impavidi guerrieri, alcuni avevano anche combattuto alle crociate, dimostrando in terra d’Asia tutto il loro grande valore. Questi guerrieri non erano ricchi ma dotati di grande coraggio. Questo coraggio gli avrebbe permesso di conquistare terre e tesori ma anche a loro mancava l’amore della fanciulla. Dopo di loro arrivarono dei ricchi mercanti con tessuti di Fiandra, vasellame della Francia, oro e argento delle miniere tedesche e gioielli del Baltico, ma anche a loro mancava l’amore della fanciulla. Un giorno, quando il padre iniziava a disperare che sua figlia trovasse marito si presentò alle porte del castello un giovane dagli abiti dimessi. La giovane lo interrogò e disse che vedeva in lui la povertà ma non capiva dove era la ricchezza. Lui rispose che era un abile sartor, sarto, e poteva confezionagli dei vestiti meravigliosi. La parola sartor deriva dal latino classico sartorem, chi confeziona abiti su misura. Poi era anche un bravo frè, fabbro, e poteva ferrare i suoi cavalli, fabbricare armi per i soldati del padre e poi aratri, zappe e falcetti per gli abitanti del villaggio, cosi potevano seminare e tagliare il grano. La parola fré deriva dal latino ferrare, mettere il ferro asi cavalli. Ed infine era un provetto cusiné, cuoco, e poteva preparagli ogni giorno un pranzo squisito. Certo non aveva nè terre, ne palizzi, ne argento oro e gioielli, ne il coraggio dei guerrieri, ma la sua ricchezza era nelle sue mani. Perché la vera e concreta ricchezza risiede nella capacità di produrre e costruire. La fanciulla, a quel punto si rivolse al padre e disse che era lui l’uomo che cercava, con le sue mani d’oro era l’uomo più ricco di tutti, perché poteva dare forma con le sue mani a tutto quello che lei poteva desiderare. E cosi la fanciulla sposo l’umile artigiano, che con le sue mani d’oro poteva dare forma a tutto quello che potesse desiderare. Vissero a lungo e non furono mai ricchissimi ma molto felici perché avevano tutto ciò che desideravano e di cui avevano bisogno.
Favria 3.03.2020 Giorgio Cortese

Marzo è arrivato dentro l’inverno, come il più mansueto e mite degli agnelli, portando giorni che sono croccanti e dorati e formicolanti, ciascuno seguito da un gelido crepuscolo rosa che a poco a poco si perde in un fiabesco chiaro di luna

Fortissimamente fragili.
Il materiale che meglio rappresenta la fragilità della condizione umana è il vetro. Il rischio del vetro non è di rovinarsi o ammaccarsi, ma di frantumarsi, andare in pezzi, schegge tanto minuscole quanto taglienti, in ogni caso, impossibili da rimettere insieme. Non voglio valorizzare la fragilità e la debolezza in contrapposizione a un mondo sempre più orientato al mito della forza, al successo e alla performance che ne sono le attuali declinazioni, ma di riflettere come nella nostra fragilità stia la forza effettiva della nostra vita umana, perché se pensiamo che basta un virus infinitamente piccolo che ci può esporre alla non-autosufficienza e vulnerabilità e di dipendere intimamente e irrimediabilmente dagli altri per poter vivere. Solo se partiamo da questo pensiero tutta la vita ci viene mostrata nella sua preziosa ed irripetibile individualità. Il nostro nascere è un destino individuale ed insieme plurale, come esseri umani e la nostra fragilità può svelarsi come nostro bene più prezioso solo all’interno della relazione e della cura che agiamo l’uno per l’altro.
Favria 4.03.2020 Giorgio Cortese

La donna spesso è soggetta ad essere contrastata nella sua ragione, perché è un passo in più rispetto a chi non capisce il suo valore.

La quarantina!
In questi giorni sentiamo parlare di quarantena, originariamente era detta nella forma veneta quarantina e prende origine dall’isolamento di 40 giorni di navi e persone prima di entrare nella laguna della Repubblica di Venezia. Questo fu messo in atto come misura di prevenzione contro la malattia che imperversava in quel periodo la micidiale peste nera, portata dai ratti, che tra il 1437 ed il 1359 sterminò circa il 30% della popolazione europea e dell’Asia. La quarantina viene citata in un documento del 1377 dove si stabilisce che prima di entrare nelle città i nuovi arrivati dovevano passare 30 giorni in un luogo ad accesso limitato, in origine vicino alle isole, in attesa di vedere se i sintomi della peste si fossero sviluppati. In seguito, l’isolamento fu prolungato a 40 giorni e venne chiamato quarantena. Il primo lazzaretto fu fondato da Venezia nel 1403, su una piccola isola contigua alla città. Nel 1467 Genova seguì l’esempio di Venezia. Nel 1476 il vecchio ospedale per lebbrosi di Marsiglia fu convertito in un ospedale per gli appestati e successivamente oltre alla peste nera venivano messi in quarantena coloro che erano afflitti da lebbra, poi quelli che avevano contratto la febbre gialla in Spagna all’inizio del XIX secolo ed infine l’arrivo del colera asiatico nel 1831. In Inghilterra venivano messi in quarantena tutti i cani, ed anche per la maggior parte degli animali, introdotti nell’isola per un periodo di sei mesi di quarantena in un canile appositamente allestito per evitare di importare la rabbia ed oggi tale usanza è stata abolita in favore di un sistema detto Pet Passaports, documentazione che gli animali hanno le vaccinazioni. Anche gli astronauti protagonisti delle prime missioni di esplorazione lunare, al loro ritorno sulla Terra furono messi precauzionalmente in isolamento per un periodo di tre settimane. La parola quarantena viene usata anche in informatica per indicare la pratica di isolamento dei file corrotti da virus in speciali directory, allo scopo di bloccarne la proliferazione e consentendone eventualmente l’analisi. Infine il termine quarantena venne utilizzato dal presidente Usa F.D. Roosvelt in un suo famoso discorso per indicare i provvedimenti da prendere a livello di politica internazionale contro le nazioni aggressive portatrici delle “malattie” della guerra, dell’intolleranza e dell’illegalità. Ma alla fine perché proprio quaranta giorni? Secondo alcuni il periodo si rifà alla Bibbia, dai quaranta giorni del Diluvio Universale, i quaranta anni di purificazione degli ebrei nel deserto prima di arrivare alla Terra Promessa ed infine i quaranta giorni di digiuno nel deserto di Cristo e quindi la Quaresima, insomma la cifra quaranta ai fini sanitari è arbitraria perché una volta con le limitate conoscenze scientifiche non potevano verificare se le persone erano guarite o si ammalavano, vivendo per quaranta giorni in promiscuità con i malati del morbo, insomma per dirla alla veneziana: “ una quarentena di zorni!”
Favria, 5.03.2020 Giorgio Cortese

Oggi non è che le donne prendono il sopravvento, ma è che hanno sempre il vento in poppa, il che è diverso.

W le donne.
W le donne che ci fanno sognare creando nuovi luoghi, senza fretta, quasi per caso, sorridendo per farci sorridere, si fanno tenere per mano ma ci guidano oltre la pelle, oltre l’amore, fino in fondo a dove posso arrivare e ancora oltre alla meraviglia per riceverle e proteggere i loro incanti. W le donne, per loro l’amore è come un grande lenzuolo bianco che si agita nel vento d’estate così velocemente che non lo si riesce a vedere, eppure ci avvolge delicatamente. W le donne che sognano e che camminano piano e ci accarezzano con uno sguardo che sembra schiuderti i cancelli di un mondo perduto. W le donne che a volte non vediamo e che sembrano trasparenti come le loro pelli delicate ma che sono migliori di noi. W le donne sempre in cerca di compiere un viaggio mai percorso, un desiderio mai vissuto. W le donne tenaci, indomite e docili insieme, sembrano accogliere l’universo intero, il paradiso, quando ridono il mondo stesso sorride. W le donne e eterne viaggiatrici dell’anima, che incantano con la loro voce, i sussurri velati, loro silenzi di cielo immenso. W le donne che con i loro forse che a volte diverranno “vedremo” o “ora” sembra che fermino il tempo facendo sbocciare la vita quotidiana in possibilità infinite che si sciolgono tra i loro capelli, sparsi d’aria
Favria, 6.03.2020 Giorgio Cortese

Il sorriso di una donna è la magia più bella che noi uomini possiamo ammirare.

Grazie donne.
Grazie alle donne che combattono ogni giorno una battaglia nel quotidiano, tra lavoro, mariti e figli. Alle donne che sono state trucidate, calpestata, violentate, derise. Grazie alle donne che ogni giorno si alzano e senza pretese di ovazioni, mandano avanti la casa, i figli, la famiglia. Grazie a Voi donne che non avete bisogno di sentirvi donne l’8 marzo andando a balli e spogliarelli. Grazie alle donne emancipate che devono ancora combattere e che ogni giorno per affermare i loro diritti e che ci insegnano a noi maschi tanto. Oggi come tutti gli altri giorni, dico: Grazie!
Favria, 7.03.2020 Giorgio Cortese

Ogni anno mi domando cosa serve a certi uomini festeggiarvi un giorno, se poi non sanno dirvi grazie tutta la vita?

W le donne! 8 marzo.
Le donne non sono tutte uguali, come vuole far credere chi fa di un filo d’erba tutto un fascio. Ho visto donne indossare un’armatura invincibile di sola dolcezza. Ci sono donne da passerella che riescono a mostrare a mala pena il livello dei tacchi a spillo, e altre invece calzano i grandi valori della vita. Esistono donne che vengono paragonate all’oceano, perché hanno l’anima con profondi abissi. Donna sei una perla rara, di infinita bellezza, il tesoro prezioso che accompagna questa umile vita, un essere capace di far tornare il buonumore anche al più cupo dei dolori. Donna le Tue intuizioni sono molto più vicine alla verità di quanto lo possano essere le certezze di noi uomini, e penso che il mondo sembra un paradiso visto dagli occhi da Voi donne. Auguri donne per la Vostra festa, penso che nella vita bisogna saper amare la bambina che vive in una donna per poter apprezzare la sua femminilità e bisogna ammirare la guerriera che si cela per poter comprendere il suo coraggio nell’affrontare la vita. Si sa la bellezza è volutamente ed evolutamente donna, e ciò che maggiormente la distingue da un uomo è la spregiudicata purezza. La purezza è femminile, e determina un principio di inizio senza fine. E che Dio benedica tutte quelle Donne che ancora sanno arrossire di fronte a un gesto galante. E poi se Dio non avesse fatto la donna, non avrebbe creato il fiore! Auguri donne!
Favria, 8.03.2020 Giorgio Cortese

Lo spirito delle donne è ineguagliabile. Vere trascinatrici della vita. A loro un rispettoso inchino. Auguri a tutte le donne.

Monatto.
Questa parola è diventata celebre perché impiegata largamente ne I Promessi Sposi, pietra miliare della lingua italiana. Nel romanzo di Manzoni sono resi famosi nella descrizione della peste del 1630, con cui erano indicati a Milano i “serventi pubblici … addetti ai servizî più penosi e pericolosi della pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl’infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta” (Promessi Sposi, cap. XXXII). Non resta la più comune delle parole, ma è suggestiva e ha un suo gusto nazional-popolare. Il suo etimo è alquanto discusso, probabilmente dal lombardo monàtt, alterazione della parola monaco, o di una sua variante dialettale con il significato di becchino. Secondo altre fonti la parola potrebbe derivare come storpiatura del tedesco monathlich, mensuale, con allusione al fatto che essi venivano reclutati mese per mese. A Milano i monatti indossavano vistosi abiti rossi che li rendevano immediatamente riconoscibili e portavano al piede un campanello che segnalava la loro presenza, essendo tra l’altro sottoposti al rigido controllo dei commissari di Sanità e dei nobili durante l’esercizio dei loro compiti. Tuttavia l’infuriare del contagio e il numero sempre crescente di malati e di morti accrebbe la loro importanza e, venendo meno chi potesse sorvegliarli, a un certo punto diventarono i padroni delle strade, approfittando del loro ruolo per arricchirsi senza scrupoli. Nei Promessi Sposi vengono menzionati che depredavano le case dei malati, estorcevano denaro ai sani per non condurli al lazzaretto, arrivavano al punto di diffondere ad arte il contagio per prolungare l’epidemia in quanto loro fonte di guadagno, circondandosi in tal modo di una fama atroce e sinistra. Tre sono gli episodi famosi nei Promessi Sposi, il primo quando Renzo viene scambiato dalla folla a Milano come untore, dal latino ungere, chi unge. Nella peste di Milano erano cosi chiamati coloro che furono sospettati di diffondere il contagio ungendo persone e cose, le porte delle case, le panche delle chiese, con unguenti malefici. Tornando all’episodio dei Promessi Sposi la folla inferocita cerca di aggredirlo e i monatti lo salvano dall’inseguimento della folla. Il secondo episodio quando il Griso con i monatti aggredisce il suo capo don Rodrigo, ormai morente per la peste per prendere i suoi beni. “ …Ma al primo suo grido i monatti avevano preso la rincorsa verso il letto; il più pronto gli è addosso, prima che lui possa far nulla; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo butta a giacere e lo tiene lì, gridando, con un versaccio di rabbia e insieme di scherno: “ah birbone! contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro quelli che fanno le opere di misericordia!” (A.Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXXIII). Diverso è il monatto dell’episodio della madre di Cecilia nel capitolo XXXIV, pur definito inizialmente turpe, mostra invece un atteggiamento difforme a quello dei suoi compagni descritti in precedenza; la solenne diversità dei modi della donna lo induce a un insolito rispetto e a una esitazione involontaria, fino alla finale gentilezza nei confronti del corpo morto di Cecilia: “Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina” verso la fine del romanzo nel trarre la morale delle vicissitudini affrontate nella sua vita, Renzo dirà di aver imparato tra le altre cose a non attaccarsi “un campanello al piede”, in ricordo di quanto aveva fatto appunto al lazzaretto.
Favria, 9.03.2020 Giorgio Cortese

Il nostro tempo su questa terra è limitato, quindi non sprechiamolo vivendo la vita di qualcun altro.
giorgio