La peste a Favria – L’ansia dentro di noi! – Patientia. – Dal Puffer alla frusta e alla frustrazione – La quotidiana guerra.- Donare in maniera responsabile ed intelligente. – Che confusione! – Calore umano!…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

La peste a Favria
“A peste,f ame et bello, libera nos Domine”“O Signore, liberaci dalla peste, dalla fame e dalla guerra”. Nel 1378 inizia una epidemia probabilmente di peste nera. La peste prima di essere una malattia dell’uomo è stata una malattia del ratto. La causa della peste era ed è un bacillo di nome “Yersinia pestis”parassita del ratto ma non dell’uomo. Questa scoperta della scienza moderna (il bacillo fu isolato nel 1894 da Alexandre Yersin), ha messo in luce un fenomeno che nel Medioevo nessuno avrebbe sospettato: lo Yersinia pestis viene trasmessa agli esseri umani dalle pulci del ratto, le quali, infatti, succhiando il sangue del topo malato, trasmettono il bacillo dell’uomo, provocando epidemie terribili, il tasso di mortalità si aggira, infatti, secondo il tipo di bacillo dal 60% al 100%. La peste aveva fatto la sua comparsa già durante l’epoca romana ai tempi dell’imperatore Marco Aurelio, 161-180 d.C., che ne restò egli stesso vittima. Un’altra recrudescenza del morbo avvenne tra il 600 e l’800 la cosiddetta peste di Giustiniano. Nel XIV secolo erano trascorsi, dunque, più di cinque secoli dall’ultima manifestazione dell’epidemia. Sulle cause della sua riapparizione si sono formulate varie ipotesi. Pare comunque che l’epidemia abbia avuto origine ai piedi dell’Himalaya, dove pare esistesse un focolaio permanente che permetteva al bacillo di impiantarsi stabilmente nelle colonie di roditori che lì vi dimoravano. La creazione dell’impero mongolo, fondato da Gengis Khan nei primi decenni del XXIII secolo, aprì la possibilità di contatti tra le varie regioni asiatiche e la maggior velocità della diffusione dell’epidemia è dovuta all’uso del cavallo dei popoli mongoli che propagarono la peste in Cina nel 1331, da lì raggiunse la colonia genovese di Caffa in Crimea nel 1346. Nel 1347 il morbo è a Costantinopoli e nel 1348 dilaga in Italia e nel 1349 in Danimarca. Dopo due anni l’epidemia parve attenuarsi ma, le vittime in Europa erano state circa 30milioni, un terzo degli abitanti. La peste ricompare da allora ciclicamente ogni 9/12 anni con conseguenze devastanti. Viene debellata nel 1943 con l’apparizione degli antibiotici. Intanto in Favria prosegue l’epidemia di peste nera che continua negli anni 1382/84 continua a mietere morti. Poi tra il 1386-1387 Le popolazioni stanche di guerre, e anche gli abitanti di Favria danno origine ad una rivolta contro i signori detta Tuchinaggio. Successivamente nel 1393 scoppia una spaventosa pestilenza che spopola tutto il Canavese, e Favria (Ramella). Si segnala poi la peste nel 1552. Quelli che avevano la peste o si supponeva che fossero venuti in contatto con gli appestati venivano posti nel lazzaretto. Dal punto di vista etimologico, lazzaretto deve il proprio nome all’isola di Santa Maria di Nazareth a Venezia, anticamente detta Nazarethum, per sovrapposizione col nome del personaggio evangelico Lazzaro, appestato per antonomasia, si mutò in “lazzaretto”. Tecnicamente, il lazzaretto era un tipo di ospedale destinato all’isolamento degli ammalati affetti da malattie contagiose e spesso incurabili. Il sinonimo moderno è “ospedale contumaciale”; il termine lazzaretto era usato anche per indicare il luogo destinato alla quarantena. In Piemonte, soprattutto nelle fonti del XVI-XVII secolo, il lazzaretto viene genericamente indicato con “cabane”: capanna, baracca, o altro luogo di ricovero di fortuna (con questo termine si indicavano anche generiche sedi dedicate alla quarantena. A Favria ve ne erano due una nella zona vicino alla Cascina Margherita adesso sulla Favriasca, l’altra in regione Braia tra Favria e Oglianico. Per notizia nel 1854, il colera appare nel Canavese. A Mazzè ci sono 66 morti, a Caluso 95 e ad Ivrea 24, ma di questo ne parliamo un’altra volta.
Favria, 24.03.2020 Giorgio Cortese

Sento nel mio animo un filo di speranza che si è attaccato come una goccia di rugiada ed il mio animo splende di sorrisi.

L’ansia dentro di noi!
L’emotività è caratteristica di noi esseri umani e certamente l’ansia è l’emozione principe della nostra società, infatti degli intellettuali del secolo scorso hanno definito il Novecento The Age of Anxiety, dal titolo del poema del 1947 dove Wystan Hugh Auden mette in scena le problematiche dell’uomo contemporaneo di fronte alla meccanizzazione. Ma questa emozione non si è dileguata con la fine del secolo, ma anzi aumenta in noi e, se nell’antichità prevaleva lo stupore per gli eventi naturali incomprensibili e nel Medioevo regnava la paura, è solo nella modernità che appare l’ansia di noi umani davanti alla realtà che cambia, allo sviluppo della tecnica che sfugge alle possibilità umane di controllarla, ai cambiamenti nei rapporti economici e lavorativi che l’industrializzazione comporta. Ma attenzione a non confondere tra ansia e angoscia perchè c’è una differenza sottile. In certe lingue come l’inglese ed il tedesco anxiety e angst sono sinonimi per entrambe. L’ansia è il motore di quasi tutte le nostre umane azioni, anche se talvolta può diventare un disturbo, paralizzare o creare crisi di panico. Il filosofo Kierkegaard parla dell’ansia come l’angoscia derivata dalla possibilità della libertà, secondo il suo pensiero il libero arbitrio fa soffrire a causa di una responsabilità troppo grande. Ma il filosofo danese riconosce che senza questo malessere interiore non vi sarebbero né immaginazione né creatività. Il giudizio positivo di Kierkegaard è però contraddetto da un secolo di tentativi di curare l’ansia, soprattutto dopo che la psicoanalisi freudiana ne ha fatto una vera malattia dell’anima. Si può affermare che l’ansia è un’emozione moderna, come la paura è stata un’emozione premoderna e si è ridotta a mano a mano che la costruzione del tempo nuovo procedeva verso la realizzazione degli ideali di sicurezza, speranza, progresso. Senza venire meno, senza scomparire quando la modernità entra in crisi, diventa liquida o si esaurisce per lasciare spazio alle incertezze che crescendo con l’aumentare dei problemi e delle criticità che dobbiamo affrontare. Perché l’ansia, a differenza della paura e della sorpresa, non rientra tra le emozioni istintive che sono il nostro patrimonio genetico atavico. L’ansia è subdola, un’emozione secondaria, aumenta con la nostra crescita tecnologica e culturale perché ogni giorno ci rendiamo sempre più conto, come con la minaccia del Coronavirus della nostra umana limitatezza di fronte alle aspettative di un futuro percepito oscuro, difficile, forse tragico e che quindi richiede un impegno superiore alle nostre forze. In conclusione l’ansia non è un’emozione semplice, bensì la risposta evoluta della nostra società, la prova della nostra evoluzione sociale. Proviamo ansia quando dobbiamo affrontare un impegno o una prova e non siamo sicuri di potercela fare, perché a volte perdiamo la capacità di misurare i nostri umani limiti e le nostre capacità che, credetemi sono molto grandi per tutti noi, sia come ragionamento, fantasia e creatività. Ma appunto in quei momenti di prova il divario tra capacità e limiti si colma nell’animo di ansia. Ma anche di fronte alla sfida del Coronavirus cosa sarebbe di noi la vita senza un pizzico di ansia, rischieremmo di perdere treni, appuntamenti ed opportunità e addio sogni e progetti per il futuro, insomma una giusta dosa d’ansia per me è necessaria per mettere nella benzina del motore quotidiano con alte dosi di passione, fiducia e speranza che andrà bene, deve andare bene. Personalmente la minima dose d’ansia mi aiuta nel pensare, e scrivere come questa breve mail, per me l’ansia è un turbamento interiore, parafrasando Heidegger, per esprimere i mei stati d’animo e realizzare dei progetti. Sursum corda andrà bene la luce è in fondo al tunnel!
Favria, 25.03.2020 Giorgio Cortese

Sogni e speranze sono il nostro pane quotidiano.

Patientia.
La parola pazienza ha origine dal latino patientia, patire, dal greco pathein e pathos, dolore corporale e spirituale. La pazienza è la qualità e l’atteggiamento di chi è in grado di accettare i contrattempi, le avversità, le difficoltà e il dolore con animo tranquillo. Per gli antichi la Patientia alimentava la virtù del saggio, anzi, è prima virtù come affermava la scuola socratica, a cinica e soprattutto la stoica che su questo concordavano. Oggi è difficile applicare la pazienza in una società che vive di fretta e si fonda su pronti e via, che si fonda su piatti preconfezionati e surgelati, foto usa e getta sui social, che ammiriamo nel guidatore dietro noi, ma che ci provoca a volte fastidio in quello che sta davanti, ma occorre allora molta pazienza per impararla. Secondo un vecchio proverbio turco letto in un libro la pazienza è la chiave del paradiso e allora se la fede muove le montagne, la pazienza raggiunge le cime perché il mondo non fu fatto in un giorno. In questo tempo che stiamo chiusi in casa e ci adeguiamo a quanto ci viene imposto per la nostra salute nella battaglia contro il Coronavirus pensiamo a seguire il ritmo della natura: il suo segreto è la pazienza! Come ebbe a dire William Shakespeare: “Quanto poveri sono coloro che non hanno pazienza! Quale ferita guarì mai, se non per gradi.” Nella vita quotidiana la pazienza è anche una forma di azione perché ci insegna a portare non solo con forza ma con grazia, il peso della nostra vita quita quotidiana, insomma la pazienza è bellezza. Certo ci sono momenti in cui la pazienza per quanto difficile sia esercitarla è l’unica maniera per affrontare determinati problemi. Come recita un vecchio adagio olandese, che avevo letto in un libro: “Una manciata di pazienza vale più di tanti cervelli”. E allora abbiamo speranza e pazienza che andrà bene, con tanta pazienza che è la più grande delle preghiere e l’esempio che diamo al mondo come italiani dello stare in casa con una sofferenza sopportata pazientemente è la più preziosa delle lezioni per un mondo tanto impaziente e superficiale.
Favria, 26.03.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno non perdiamo la speranza di fronte al dolore e all’angoscia, con pazienza e stando attenti tutti alla regole andrà bene!

Dal Puffer alla frusta e alla frustrazione
Ho trovato in un documento che verso la metà del 1600 dei facinorosi in un paese Canavesano in barba alle grida ducali giravano armati con la pistola a ruota detta puffer. L’invenzione della pistola a ruota è variamente datata tra l’ultimo decennio del Quattrocento e il primo del Cinquecento, e la paternità differentemente accreditata a Leonardo da Vinci o a un anonimo meccanico tedesco. Il suo nome deriva dal principio di funzionamento, un mollone, messo in tensione con una chiavetta simile a quelle degli antichi giocattoli meccanici, veniva rilasciato allo scatto del grilletto, provocando il veloce movimento di una ruota dentata contro una pietra focaia, come in un accendino, e la conseguente scintilla necessaria ad innescare lo sparo. L’arma così poteva essere caricata in anticipo ed era pronta all’uso, senza il fastidio, e il pericolo, delle fiamme vive e delle micce incandescenti degli archibugi. Era un meccanismo estremamente complesso, allo sviluppo del quale non erano estranei i progressi tecnici precedentemente compiuti nell’orologeria e alla cui fabbricazione si si potevano applicare esclusivamente artigiani capaci di uguale precisione e destrezza manuale. Il caratteristico pomello tondeggiante chiamato in tedesco “Puffer” diede anche uno dei nomi con i quali la pistola era conosciuta serviva per afferrare con maggiore sicurezza l’arma e spesso era vuoto ed utilizzato per contenere parti di ricambio: non veniva assolutamente quindi usato, come sostenuto da alcuni, da “testa” di mazza in corpo a corpo: data la fragilità e il costo dell’arma sarebbe equivalso ad usare un orologio da tasca come un mazzafrusto. Il mazzafrusto era un’arma bianca di origine contadina, derivata probabilmente dalle fruste per battere il grano e utilizzata dal XIII al XXV secolo. Per la sua difficile governabilità e pericolosità per lo stesso utilizzatore, non era destinata al combattimento di lunga durata, quanto invece ad attacchi immediati e letali, specie della cavalleria pesante alla carica. L’arma consisteva in una palla di ferro chiodata collegata ad un bastone tramite una catena. Si distingueva in mazzafrusto da piede costituito da un’asta ad altezza d’uomo munita superiormente di una staffa a cui sono unite con catene da una a tre palle di legno ferrato o di ferro con punte e brocchi, poi quello da cavallo detto anche flagello d’arme, a manico corto e di solito con una sola palla. Vi è anche una variante più controllabile di mazzafrusto, composta da un manico di legno con attaccata, invece di una catena, un cilindro di legno, di circa metà della lunghezza del manico così da non ferire la mano, coperto di chiodi. Interessate il significato di frusta, dal latino fustis, strumento di strumento di supplizio, con inserzione di r onomatopeico, usata anticamente per incitare o picchiare le bestie, soprattutto quelle da tiro o da lavoro. Da lì la parola frusto, consumato, logoro, banale, pezzo, boccone. Participio passato senza suffisso del verbo frustare, consumare, a sua volta derivato di frusto, pezzetto, che viene dal latino frustum pezzo. Una parola dalla storia più complessa di quel che si potrebbe immaginare, e ha significati intensi che tornano spesso utili ma altrettanto spesso sfuggono. Uno dei suoi significati è nella veste di aggettivo, quello di consunto, logoro, possono essere frusti i miei pantaloni preferiti che ostinatamente mi ostino ad usare, ma è anche frusta una battuta che non fa più ridere nessuno o l’olio usato che è frusto. Questo aggettivo scaturisce da un verbo che non viene più usato. Se oggi uno dice frustare viene in mente l’aguzzino che dà grandi cinghiate ai rematori nelle navi antiche. Tale verbo a sua volta nasceva dal sostantivo frusto, che indica il pezzetto di stoffa che l’usura riduce le cose in brandelli e pezzi. Quindi quando sento certe promesse elettorali posso dire che sono cose fruste nelle parole come nei fatti. Da lì nasce una frustrazione per l’attuale situazione sociopolitica, già frustrazione che significa insoddisfazione, dal latino frustratio delusione, da frustrare, derivato dell’avverbio frustra inutilmente. La frustrazione è un sentimento di profonda umiliazione dove vediamo che chi ci governa non tiene conto delle nostre opinioni e allora molte volte ci ovattiamo l’intelletto e ci insonorizziamo il cuore.
Favria, 26.03.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno coltivo speranze per stupire i miei sogni.

La quotidiana guerra.
Uno scrittore tanto tempo fa ha detto che chiunque desideri andare in guerra forse non ha mai calcato una trincea! Possiamo dire cosa vogliamo ma per i soldati non è mai stata ne sarà una passeggiata, non è facile premere quel grilletto nonostante l’addestramento e nonostante gli ideali, nonostante tutto! Spesso la pressione emotiva di un popolo e la scusante giusta per ottenere un obiettivo strategico. Ma la guerra è mai giusta perché va contro la vita Un noto generale pluridecorato pare che abbia affermato che è un bravo soldato dovrebbe essere contro la guerra. Ma nella vita ci sono delle cose per cui vale la pena di combattere. Ecco io non sto dicendo che fare la guerra sia bello, ossia facile non è questo il punto tutti noi a parole ripudiamo la guerra ma poi finiamo per viverla ogni giorno della nostra quotidianità fino alla fine. Adesso stiamo combattendo come umanità la guerra contro il Coronavirus e tutti noi speriamo che passi in fretta e ci diamo da fare ogni giorno nel rispettare le regole di non uscire di casa, e se come il sottoscritto per lavoro di attenermi a quanto prescritto nella mia sporca trincea quotidiana convinto che ne usciremo vivi. Ecco la nostra quotidiana guerra una lotta che ci unisce come esseri umani, divisi da ideali diversi e credo religiosi ma uniti tutti contro la minaccia del genere umano.
Favria, 27.03.2020 Giorgio Cortese

Sperare è una lotta da condurre ogni giorno. È un dono che permette di credere e di esistere. Così la vita non cambierà, ma si evolverà.

Donare in maniera responsabile ed intelligente.
Donare sangue è un gesto che salva la vita e che, a differenza delle altre terapie, non ha alcun costo: né per le casse dello Stato né per chi ne usufruisce. La donazione del sangue è un mattone di solidarietà che contribuisce a salvare la vita dal momento che il sangue non è riproducibile in laboratorio ed è spesso ciò che occorre in prima battuta nelle sale operatorie e nei pronti soccorsi. Attenzione seguito del DPCM del 8 marzo 2020, per evitare assembramenti è necessario sempre prenotare la vostra donazione. Grazie per la vostra collaborazione. Ti aspettiamo vieni a donare a Favria mercoledì 8 aprile , cortile interno del Comune dalle ore 8 alle ore 11,20. Ricordati di prenotare cell 3331714827
Favria, 28.03.2020 Giorgio Cortese

Ogni giornata è una piccola vita, ogni risveglio una piccola nascita, ogni nuova mattina è una piccola giovinezza.

Che confusione!
Il coronavirus ha messo alla prova anche il mondo dell’informazione che purtroppo in molti casi è caduto in errori anche grossolani. Bisogna fare chiarezza tra i due termini particolarmente in voga in questo periodo: epidemia e pandemi. Epidemia, Il coronavirus, all’11 febbraio 2020, è da considerarsi un’epidemia e emergenza sanitaria a livello globale. Per epidemia si intende una diffusione che passa da un soggetto ammalato contagia più di una persona. In questo caso il contagio è rapido e l’infezione di diffonde in un numero consistente di una determinata popolazione. Quindi si riferisce a un’infezione che interessa una particolare area in un determinato lasso di tempo. Pandemia, deriva dal greco: pan-demos, ossia tutto il popolo. Si intende una malattia. Per definizione, quindi, la pandemia p una epidemia che si diffonde in diversi Paesi. Ma la diffusione deve essere consistente, rilevante. Ed infine la parola endemia quando una malattia o come dicono i dottori l’agente responsabile della malattia circola tra le persone della popolazione in maniera continua o quantomeno uniforme in un largo lasso di tempo.
Favria 29.03.2020 Giorgio Cortese

La speranza non deve mai mancare, è un tassello che compone i sogni del vivere quotidiano.

Calore umano!
Un poeta austriaco Ernst Ferstl scriveva che la fonte più efficace di energia nella nostra vita è e sarà sempre il calore umano! Questo mi ha detto per telefono l’amico Fervido questa sera. Fervido, nome di fantasia mi ha telefonato perché chiuso in casa tra quattro muri aveva bisogno di svagarsi un attimo scambiando due parole. Fervido mi diceva che cosa gli manca adesso sono le strette di mano per strada, gli abbracci con i figli e nipoti, insomma il calore umano che non è solo una temperatura tecnicamente misurabile. Il calore umano è anche uno stato d’animo, l’emozione e lo stupore. Fervido mi ha detto che crede negli abbracci terapeutici, perchè con l’abbraccio si può condividere il calore del proprio cuore. Purtroppo in queste settimane deve stare a casa confinato tra le quattro mura ed era un pochino triste nello stare li a leggere un libro e come unica compagnia della stanza il ticchettio dell’orologio. Era intento a leggere il libro, Fervido è un grande lettore, non si accorse che era entrato nella stanza Artù, un piccolo Volpino bianco, piccolo di dimensioni ma dall’enorme affetto, che si accoccola ai sui piedi e con un balzo sale sulle sue ginocchia. Il suo sguardo e quello di Artù si sono incrociati e Fervido ritiene che Artù ha capito che doveva aiutarlo a tirarsi su nel morale. Mi ha scodinzolato, non molto forte, perché non voleva essere indiscreto. Fervido ha iniziato ad accarezzarlo e lui a premuto delicatamente la testa contro la pancia. Poi Artù ha alzato una zampa quasi volesse accarezzarlo e Fervido mi ha detto che si è commosso da questa dimostrazione di affetto, nel suo volto e sorto un sorriso e l’animo si è illuminato e allora si è fatta forte in lui convinzione che andrà tutto bene. Penso che tutti noi se nel buio della notte troviamo la luce nei sogni, nel buio del giorno la troviamo nella speranza con questi piccoli gesti di affetto dei nostri migliori amici a quattro zampe. Ogni giorno leggiamo e ascoltiamo di piccoli gesti, quelle piccole cose, quelle piccole attenzioni, quegli sguardi, quelle parole nel momento giusto, nel modo giusto, che tengo in vita la speranza che andrà bene.
Favria, 30.03.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno mi sforzo di sentirmi sempre all’altezza di un sogno più grande e pensare che andrà bene se nel mio piccolo mi attengo alle regole nel rispetto mio e dei mei simili.
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