J asu d’Cavour Je gniun ca i lauda, as laudu da lur. – PranzoAlpino. – Le primule. – La disfida di Barletta 13 febbraio 1503 – San ValentinO…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

J asu d’Cavour Je gniun ca i lauda, as laudu da lur.
Quello sopra citato è un vecchio proverbio piemontese, gli asini di Cavour se nessuno li loda si lodano da soli, per indicare quelle persone narcisiste, fanfarone e presuntuose, sempre convinte di essere sempre dalla parte della ragione. Queste persone sono ammalate di narcisismo persone vanitose che non sentono altro che lodi ma forse siamo un pochino tutti narcisisti e i social media rappresentano attualmente il palcoscenico ideale sul quale il narcisista può mettersi in mostra dando il meglio di sé attraverso fotografie e selfie, aggiornamenti di stato, commenti e condivisioni è possibile infatti dare di sé l’immagine perfetta e superiore e trovare una compensazione alle sconfitte e alle umiliazioni causate dalla vita reale. Siamo schiavi dei diritti e dei desideri che chiamiamo libertà, dove ognuno di noi da una sua definizione personale. Oggi rispetto ai nostri nonni e padri, molti di noi sono in possesso di altisonanti titoli di studio, ci crediamo istruiti, civilissimi, maestri di conoscenza. Il nostro ideale è la comodità nel senso di quanto è comodo pagare con carta di credito, usare microchip che con la tecnologia si aprono le porte e si fanno tante altre cose e non ci rendiamo conto che più andiamo avanti e più siamo sottoposti alla sorveglianza in ogni gesto quotidiano. Con animo felice tendiamo polsi e caviglie alle catene, correndo a consumare, salvo opporci vigorosamente a tutte le conseguenze della nostra cattivo rispetto con la Terra. Siamo consumatori compulsivi, ma abbiamo orrore delle discariche di rifiuti, l’importante e che siano costruite lontane dai nostri occhi o non esistano affatto. Vogliamo viaggiare, correre veloci in cerca di opportunità, emozioni, esperienze nuove, ma odiamo i combustibili che lo consentono e le opere pubbliche che rendono concreta la smaniosa libertà di movimento e circolazione. Vogliamo il rispetto dell’ambiente, siamo contro tutti i diserbanti ma non ci chiniamo la schiena a togliere l’erba che lentamente riconquista tutti gli spazi. E poi il telefono furbo, il magico smartphone, è oggi per molti di noi una cornucopia inesauribile fino a che non si scarica la batteria. Quando sono in giro, vedo sempre più persone attente a leggere il telefono incuranti del loro camminare, lo smartphone è divenuto una una propaggine di noi stessi con l’evoluzione in incapaci dipendenti di meccanismi che non esistevano sino a pochi anni fa. Adesso bastano 24 ore senza energia elettrica per fermare ogni attività, i nostri nonni senza master, lauree e diplomi se la sarebbero cavata perché erano in grado di affrontare concretamente la vita. Oggi gli orgogliosi e vanitosi asini non riconosce altra autorità che se stessi e se qualcosa non va danno sempre la colpa agli altri. Che tristezza viviamo nella fiera delle vanità, tra feste e balocchi e come un novello Narciso, ci guardiamo allo specchio e ci piacciamo assai. Forse si ci versassimo adosso delle gocce di umiltà, chiede un bagno sarebbe troppo saremmo meno compiaciuti di noi stessi, riconoscendo i nostri umani difetti. Forse solo così cercheremmo di migliorarci e di recuperare un briciolo di senso morale. Agli asini, anzi noi ai burich rammento quanto scriveva un grande poeta, John Milton, che chiamava virtù la gratitudine di chi intende la vita come un dono e non una sfida per plasmarla a nostro piacimento. Stiamo attenti che l’inverno del nostro scontento diventa estate gloriosa nella luce artificiale del consumo, del desiderio e del progresso. Se no è come esse al pian dij babi, al piano dei rospi!
Favria, 10.02.2020 Giorgio Cortese

Oggi non ho voglia di parlare ma solo di ascoltare parole

PranzoAlpino.
Il cibo, è un libro di memoria e, se ci si viene dalla terra in cui siamo nati, è anche un pezzo della nostra infanzia e della nostra storia. Il cibo, innegabilmente è la caratterizzazione di un territorio, in cui le varie popolazioni hanno affermato la propria identità e il diritto all’esistenza. Il cibo è cultura, quando si consuma, perché come esseri umani a differenza degli altri animali non consumiamo il cibo come si presenta ma lo modifica, lo trasforma a seconda delle sue esigenze, delle sue preferenze, della sua identità. Ecco che il pranzo alpino diviene occasione di ritrovare radici comuni consumate in un clima di fratellanza e di comuni ideali alpini di onestà, giustizia, aiuto fraterno e collaborazione, valori oggi sempre più carenti in questa nostra distratta e frenetica società. Ritengo che noi Alpini non possiamo da soli cambiare il mondo ma con il nostro agire quotidiano nelle piccole attività giornaliere possiamo essere di esempio per propagandare un ritorno ad un modo di vivere più umano, insomma possiamo essere nel nostro piccolo un utile antivirus contro l’indifferenza dilagante. Che bello oggi il pranzo con i fratelli Alpini e soci aggregati, un pranzo legato alla tradizione con tofeja, quaiette e fragioli, e alla fine come dolce le immancabili bugie. Questo mi fa pensare che la storia e le nostre radici comunque le affrontiamo, in un modo o nell’altro, sono storie di cose da mangiare o della loro mancanza. Grazie al sempre attivo Capo Gruppo Giovanni, ai magnifici cuochi, e a tutto il Direttivo per la bellissima giornata, passata in allegria
Favria, 11.02.2020 Giorgio Cortese

La scienza, come qualsiasi altra attività umana, sa di avere dei limiti da rispettare per il bene dell’umanità stessa, e necessita di un senso di responsabilità etica. La vera misura del progresso è quello che mira al bene di ogni essere umano e del Creato che ci circonda.

Le primule.
Secondo la mitologia greca, la primula venne mandata da Apollo sulla terra per sconfiggere il freddo inverno che voleva continuare a gelare il mondo. Con questo mito è nata la credenza che la primula annunci la primavera, simboleggiando così la vincita del bene sul male e l’arrivo del sole, quindi di speranza. Per i Druidi, alcune specie del genere Primula avevano un ruolo significativo nella loro medicina e mitologia. In più, insieme ad altre piante rituali, era un ingrediente fondamentale nelle pozioni magiche per aumentare l’assorbimento delle proprietà delle erbe. Nella mitologia nordica, la primula era il fiore della dea Frigga la quale possedeva le chiavi della felicità e dell’amore e si pensava che la pianta potesse portare una persona nel palazzo segreto della dea. Questa associazione della primula delle chiavi deriva dalla somiglianza del fiore con quest’ultime. Anche nel cristianesimo la primula è il simbolo delle chiavi di San Pietro poiché è colui che detiene le chiavi per il paradiso. Da questa somiglianza deriva il nome della pianta come “Erba di San Pietro” o “Petrella”, o ancora in inglese “Key flower”. Il nome della primula dona a questo fiore il significato di inizio, di rinnovamento e gioventù. Nel Regno Unito ha un significato di augurio, perciò è spesso regalata ai novelli sposi o anche solo nella speranza che un evento vada per il meglio. Secondo una tradizione inglese, le donne dovevano lavarsi il viso con il latte infuso di primula in modo da poter avvicinare il proprio interesse amoroso. In “Sogno d’una notte di mezza estate” di Shakespeare, nella prima scena del secondo atto, la primula viene rappresentata come un fiore mitologico in cui le fate trovavano rifugio dentro il suo fiore. Infatti, in alcune leggende tradizionali, mangiando la primula era permesso vedere le fate e il loro tesori nascosti negli alberi e nelle rocce. Tuttavia c’era un numero preciso di quante primule era necessario mangiare per acquisire tale potere e se si fosse ecceduto si rischiava di attirarsi una maledizione.
Favria 12.02.2020 Giorgio Cortese

Il passato può essere compreso soltanto guardandolo con gli occhi del presente.

La disfida di Barletta 13 febbraio 1503
La disfida di Barletta e notissima e si può raccontare in tre diversi modi. Il primo è quello patriottico, nato in clima pre -risorgimentale dove si evidenza che alcuni cavalieri francesi prigionieri di spagnoli si trovavano in osteria assieme l’ora del sari, lo spirito della cavalleria era anche questo, quando definirono codardi gli italiani. Gli animi si scaldarlo e la mattina del 13 febbraio 1503 si giunse ad una Disfida, cioè’ una sorta di torneo che vide il trionfo degli italiani guidati da Ettore Fieramosca. Il secondo modo è quelli di contestualizzare l’episodio dove scontri di questo tipo Nella pause delle battaglie erano frequenti e mito diffusi, quasi delle amichevoli per allenarsi alle battaglie vere e proprie. Di questo ne è prova che solo un francese, forse morì. Inoltre l’italiano in questione erano presenti come mercenari sotto le bandiere spagnole. Difficile, quindi considerarla una fulgida vittore lesionale. Il terzo modo è una riflessione per rimarcare Che poco tempo dopo la diffida gli spagnoli ottennero nella vicina Cerignola un’importante vittoria sui francesi e sulla fanteria svizzera, ritenute fino ad allora quasi invincibili, utilizzando formazioni miste di picchieri, archibugieri e schermitori. Queste unità erano i primi esempi dei Tercios dove si combinava la rigidità della linea dei picchieri e la potenza di fuoco a lunga gittata dei moschettieri. Il Tercio si rivelò ideale sia per la difesa che per l’offesa. Fu con la battaglia di Rocroi che ebbe fine il predominio del Tercio, e così, nel tardo XVII secolo gli spagnoli abbandonarono questa ormai obsoleta struttura militare, per adottare quella più flessibile di battaglioni e reggimenti sul modello francese. Come si vede stava cambiando il modo di combattere, ma gli italiani non avevano voce in capitolo e dopo 10 anni perdevano pure il ruolo di baricentro del continente e dopo altri 20 l’Italia sarebbe diventata semplice terra di conquista. Fa riflettere anche come gli eventi vengono ricordati, la schermaglia fra cavalieri e testimoniata dall’osteria dell’insulto che ancora esiste, un monumento in piazza, una settimana di celebrazione annuali, un libro di Massimo d’Azeglio, film, francobolli è una forma di fuso e duratura. Per l’importante battaglia di Cerignola e per riflessioni come gli errori politici degli Stati italiani e la loro mancanza di lungimiranza avessero portato alla loro marginalità, di questo assolutamente nulla.
Favria, 13.02.2020 Giorgio Cortese

San Valentino
La festa di S. Valentino si riallaccia ai riti dell’antica Roma al Fauno Luperculo. I Lupercalia di celebravano il 14 ed il 15 febbraio in onore dell’antichissimo dio Italico Fauno Luperculo ed erano legati ai riti di purificazione dei campi e ai riti della fecondità. Tali riti via via divennero sempre più licenziosi che l’imperato Augusto li vietò. Vennero poi soppressi dal Papa Gelasio I senza però scomparire del tutto. La Chiesa sostituì il rito pagano dei lupercali con il culto di S. Valentino, attribuendo a questo martire la capacità di proteggere i fidanzati e gli innamorati. La festa venne istituita il 14 febbraio data in cui il Santo era stato decapitato e allora cambiò la festa pagana del fauno protettore del bestiame ovino e caprino dall’attacco dei lupi. Geoffrey Chaucher, l’autore dei racconti di Canterbury, alla fine del ‘300 scrisse in onore delle nozze di Riccardo II e Anna di Boemia “Il Parlamento degli uccelli” un poema di settecento versi in cui associa la figura di Cupido con San Valentino. In Europa, anche in Italia e a Favria si pensava nel Medioevo che il 14 febbraio gli uccelli incominciavano ad accoppiarsi scegliendosi tra di loro per poi fare il nido. A Favria c’era l’usanza dei Valentine e valentine che si sceglievano come fidanzati e poi saltavano mano nella mano attraverso un falò e da come saltavano traevano auspicio del futuro della loro unione. Shakespeare in Amleto scrive: “Domani è San Valentino e, appena sul fare del giorno, io che son fanciulla busserò alla Tua porta, voglio essere la Tua Valentina.”. Una curiosità finale S. Valentino il protettore degli innamorati ha ispirato in Inghilterra l’usanza di teneri e spiritosi biglietti tra innamorati detti valentini. Ancora oggi nei paesi anglosassoni è usanza in questo giorno scambiarsi dei biglietti detti Valentine, che recano simboli di amore romantico, cuori, colomba e Cupido. Il più antico Valentine pare sia quello che risale al XV secolo che fu scritto da Carlo d’Orleans, figlio di Valentina Visconti, allora detenuto nella Torre di Londra dopo la sconfitta della battaglia di Anzicourt del 1413. Carlo si rivolge alla moglie Bonne d’Armagnac con queste bellissime parole: “ Je suis dejà d’amour tannè, ma trés douce Valentineé, Sono malato d’amore, mia dolcissima Valentina. La commercializzazione consumistica di questi biglietti iniziò a metà Ottocento quando Esther Howland iniziò a produrre biglietti per San Valentino su scala industriale.
Favria 14.02.2020 Giorgio Cortese

L’amore ed il rispetto per la persona amata non si dimostra solo a S. Valentino ma sempre, giorno per giorno.
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