Ingratitudine e riconoscenza. – 2 giugno, il cammino delle donne nella società. – Da nuvola a nubile.-La targa da tergo.- Una strada…. – Il ciurmatore che ciurla nel manico la fregatura. – Al di qua ed al di là…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Ingratitudine e riconoscenza
Un mio caro amico mi ha raccontato un paio di episodi accadutogli nella sua lunga vita ricca di esperienza e di saggezza che merita essere scritto. Negli anni cinquanta in pieno boom economico era andato a lavorare in una auto-officina a Torino. Allora era giovanissimo sui quindici anni ed era da poco che lavorava li, quando all’inizio dell’estate entrò un giorno nella rimessa in signore distinto con un ragazzo, mentre lui stava lavorando. Quel signore, ma questo le seppe più tardi era un industriale della Torino di quei magnifici anni che hanno dato ricchezza a tutta la Nazione. Il padrone chiamò in ufficio questo mio amico e gli presentò le due persone che aveva davanti, padre e figlio ed il padrone gli spiegò che il figlio era stato bocciato al ginnasio di un rinomato liceo della città, fucina di industriali, politici e letterati. Il padre per punizione lo mandava a lavorare durante tutta l’estate in quel luogo perché afferrasse cosa voleva dire lavorare sporcandosi le mani di grasso e di olio nel riparare le auto e così avrebbe apprezzato lo studio negli anni successivi. Questo mio amico da poco lavorava li e con il ragazzo quasi suo coetaneo si instaurò quel clima di confidenza di reciproco aiuto che nasce spontaneo tra i giovani coetanei. Successivamente questo mio amico negli anni sessanta cambiò lavoro passando alle dipendenze di una nota azienda meccanica dove il padrone mandava i giovani neolaureati assunti per fare un eventuale percorso di carriera con incarichi direttivi, nelle linee di produzione accanto agli operai per capire dalla base come si svolgeva la produzione aziendale. Nei primi giorni questo ragazzo più giovane di un paio di anni gli si rivolse con il Tu, al che il secondo giorno anche questo mio amico gli rispose dandogli del Tu. Di rimando il neo laureto gli rispose che lui semplice operaio non poteva dare del Tu a lui con il suo titolo di studio e che sarebbe divenuto un suo futuro capo. Nonostante questo, chi mi ha raccontato l’episodio, diede rivolgendosi sempre con il Lei tutta la collaborazione che aveva bisogno e dopo un mese le loro strade si divisero, ma si sa che l’ordito della trama della vita ci può riavvicinare a persone che parevano passate fugacemente nel nostro cammino. Passano altri dieci anni e grazie al suo valore e la sua tenacia nel lavoro questo mio amico era arrivato ad alti livelli direttivi, dalla sua umile mansione di operaio benchè non fosse laureato, ma con la laura più importante dell’essere bravo e volenteroso nel fare il suo lavoro. In quei anni instaura una proficua amicizia con un industriale suo fornitore e a lui per il S. Natale gli invia un dono per la collaborazione ricevuta, ma il dono natalizio, che era il classico cesto di Natale pieno di una infinità di prodotti alimentari e spumante, gli viene rimandato indietro. Nel mese di gennaio dell’anno successivo, continua, il racconto del mio amico, chiede spiegazioni a questo imprenditore del perché del rifiuto del cesto di Natale ottenendo la disarmante risposta che era troppo e che se proprio insisteva per sdebitarsi della collaborazione avrebbe accettato di mangiare assieme una volta. Durante questo semplice pasto che avvenne nella primavera il Direttore dello stabilimento gli propose un investimento nell’acquisto di quella azienda e che avrebbe cambiato la sua vita da dipendente a padrone di uno stabilimento. Ma per fare questo il mio narratore mi dice che non disponeva d tutto il denaro e allora questo signore gli propose di versargli poco per volta quanto convenuto. E cosi per diversi anni periodicamente versava delle somme in acconto, accontentandosi di quelle ricevute che gli rilasciava che consapevolmente non avevano nessun valore legale e che gli facevano nascere nei pensieri il tarlo del dubbio che forse veniva raggirato come uno stupido. Il mio interlocutore, continua il racconto e mi dice che nel frattempo per lavoro va in Urss come si chiamava allora la Russia nel periodo sovietico, siamo nella metà degli anni sessanta, e viene inviato come altri italiano ad un balletto al Bolshoi di Mosca per festeggiare una importante commessa di lavoro. Al Bolshoi durante l’intervallo nel foyer dei questo storico teatro moscovita, dove si intrattenevano gli spettatori prima, durante nella pause e dopo lo spettacolo, vede da lontano un signore che gli sorride e anche lui gli sorride avendolo riconosciuto anche se ormai erano passati più di venti anni. Allora questo signore gli si avvicina e gli chiede se si sono conosciuti se MonteCcarlo o a S.Moritz, alla sua risposta in officina,, dicendo il periodo, era quel ragazzo mandato a lavorare durante l’estate perché bocciato al Ginnasio, il viso di questa persona diventa gelido e se va senza salutarlo. La vita di questo mio amico prosegue e di episodi ce ne sarebbero da raccontare, anzi da scrivere un bel libro per trasmettere tutte le esperienze acquisite. Ma proseguendo il racconto dopo tanti anni questo mio amico incontra in un ufficio pubblico quel neo laureato che non voleva che gli si rivolgesse a lui dandogli del Tu, che nel frattempo non aveva sfondato nell’azienda privata ed aveva vinto un concorso in un Ente Pubblico. Questi visto il ruolo assunto dal mio amico gli chiede una raccomandazione per fare assumere una sua parente. Il mio amico con bonomia gli indica dove mandare il curriculum per l’assunzione. Infine arriviamo a quell’industriale conosciuto come fornitore nell’azienda dove lavorava che dopo circa dieci anni consegna al mio amico il frutto dei suoi costanti versamenti per acquisire quanto pattuito. Questi tre episodi ci parlano dell’ingratitudine e della gratitudine ovvero la memoria del cuore. Nella vita chi agisce per amore è esposto al pericolo di non essere ricambiato, all’amarezza dell’ingratitudine, e chi non ringrazia per poco, non ringrazia per molto ma chi è grato non ha solo la più grande delle virtù, ma ha nell’animo la madre di tutte le altre.
Favria, 1.06.2017 Giorgio Cortese

Buona giornata. Se nella vita volevo piacere a tutti nascevo falso

2 giugno, il cammino delle donne nella società
Le donne nella storia sono spesse assenti. Di loro si tace, anche quando hanno compiuto azioni coraggiose e straordinarie. Perciò è importante ricordarle oggi nell’anniversario della Repubblica Italiana, nata nel Dopoguerra. La lotta della libertà, non è stata fatta solo da uomini ammirevoli ma anche da donne coraggiose, intelligenti Ed intrepide che non solo hanno partecipato alla Resistenza ma hanno contribuito a scrivere la Costituzione, insistendo perché ricordasse e sancisse i diritti delle donne. Adesso le donne sono cittadine al pari degli uomini. Esse sono padrone di se stesse e godono dell’eguaglianza giuridica e di tutti gli stessi diritti degli uomini. Possono accedere a tutte le professioni e a tutti gli uffici, ma non è stato sempre così. In passato la donna era un accessorio del capofamiglia, padre o marito. Nel Risorgimentale in Italia il dibattito sui diritti delle donne, la loro educazione ed emancipazione fu assai marginale, secondo Gioberti: “nsatori” del Risorgimento italiano si limitarono a ribadire la soggezione della donna. Secondo Rosmini: “Compete al marito, secondo la convenienza della natura, essere capo e signore; compete alla moglie, e sta bene, essere quasi un’accessione, un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal suo nome dominata”. Secondo Filangieri spetta alla donna l’amministrazione della famiglia e della prole, mentre le funzioni civili spettano all’uomo. Simili teorie furono alla base del diritto di famiglia dell’Italia unita, riformato soltanto nel 1975. Anche per quanto riguardava i diritti politici, il dibattito in Italia era stato assai poco acceso. Le stesse donne attive sulla scena politica erano uno sparuto gruppo di eccezioni. Nell’Italia unita le donne vennero quindi escluse dal godimento dei diritti politici. Nel 1866 la contessa di Belgioioso, nata Trivulzio, patriota e letterata, scriveva in proposito: ” Le donne che ambiscono a un nuovo ordine di cose, debbono armarsi di pazienza e abnegazione, contentarsi di preparare il suolo, seminarlo, ma non pretendere di raccoglierne le messi”. Infatti, la Camera dei Deputati del Regno d’Italia respinse la proposta dell’on. Morelli volta a modificare la legge elettorale che escludeva dal voto politico e amministrativo le donne al pari degli “analfabeti, interdetti, detenuti in espiazione di pena e falliti” ed a concedere quindi alle donne tutti i diritti riconosciuti ai cittadini. Dopo la bocciatura delle legge, Mazzini scrisse al deputato che l’emancipazione della donna sancirebbe una grande verità base a tutte le altre, l’unità del genere umano, ma sperare di ottenerla alla Camera come è costituita, e sotto l’istituzione che regge l’Italia, la monarchia è, a un irrealizzabile. Nel 1879 viene fondata una Lega promotrice degli interessi femminili, che si batteva per il diritto di voto alle donne. La condizione socioeconomica delle donne fra fine ‘800 e primi del ‘900 era di drammatica disparità. Poiché anche il lavoro dei bambini era assai diffuso, e sottopagato, prima della prima guerra mondiale furono emanate alcune leggi per tutelare le donne e bambini, quali soggetti deboli e sfruttati. I salari più bassi delle donne venivano percepiti dagli altri lavoratori come una forma di concorrenza sleale, e quindi le prime proposte di legge cercavano di garantire un minimo salariale alle lavoratrici, anche per mantenere sul mercato la manodopera maschile. La legge sul lavoro femminile del 1902 finì per limitare ancora una volta i diritti delle donne, se da un lato essa concedeva quattro settimane di riposo, non pagato, alle puerpere, dall’altro vietava l’impiego di lavoratrici in alcuni lavori ritenuti “pericolosi” come l’attivazione di macchine, o trattamenti di polveri e materiali “sconvenienti” o tali da richiedere una manipolazione complessa. Nel frattempo era emersa chiaramente l’ostilità della maggioranza dei lavoratori di sesso maschile a qualunque norma a favore delle lavoratrici nel timore che potesse aumentare la concorrenza del lavoro femminile e anche lo stesso Partito Socialista e le sue organizzazioni sindacali non perorarono la causa della tutela del lavoro femminile, nonostante lo slogan socialista: “Le donne che lavorano come voi sono uomini”. Sul versante dei diritti civili e politici, erano nate frattanto l’Associazione nazionale per la donna a Roma nel 1897, l’Unione femminile nazionale a Milano nel 1899 e nel 1903 il Consiglio nazionale delle donne italiane, aderente al Consiglio internazionale femminile. Nel 1881 Anna Maria Mozzoni tenne un’accorata perorazione del suffragio femminile, ma tutti i progetti di legge per garantire il voto alle donne, o meglio ad alcune categorie di donne, venivano regolarmente bocciati dai vari governi, Minghetti 1861, Lanza 1871, Nicotera 1876-77, Depretis 1882 . E solo nel 1874 venne permesso l’accesso delle donne ai licei e alle università, anche se in realtà continuarono ad essere respinte le iscrizioni femminili. Ventisei anni dopo, nel 1900, risultano comunque iscritte all’università in Italia 250 donne, 287 ai licei, 267 alle scuole di magistero superiore, 1178 ai ginnasi e quasi 10.000 alle scuole professionali e commerciali. Quattordici anni dopo le iscritte agli istituti di istruzione media, compresi gli istituti tecnici, saranno circa 100.000. Solo nel 1877 venne però approvata una legge che ammetteva le donne come testimoni negli atti di stato civile. Nel 1906 la studiosa di pedagogia Maria Montessori si appellò alle donne italiane attraverso le pagine de “La Vita” affinché si iscrivessero alle liste elettorali. Un gruppo di studentesse affisse l’appello sui muri e molte donne tentarono quindi di iscriversi alle liste elettorali, così come fatto con successo negli USA. Sulla stampa si scatenò un dibattito fra i fautori del voto alle donne e i contrari. Le corti di appello delle varie città respinsero però tali iscrizioni, tranne la corte di Ancona, dov’era presidente Ludovico Mortara, ma anche questa sentenza venne annullata dalla Corte di Cassazione. Nel frattempo però alcune donne riuscirono ad entrare in ambiti da cui fino ad allora erano escluse: nel 1907 Ernestina Prola fu la prima donna italiana ad ottenere la patente, nel 1908 Emma Strada si laureò in ingegneria, nel 1912 Teresa Labriola si iscrisse all’Albo degli Avvocati e Argentina Altobelli e Carlotta Chierici vennero elette al Consiglio Superiore del lavoro. Nel 1908 si tenne a Roma, nel Campidoglio, il primo Congresso delle Donne Italiane, inaugurato dalla Regina Elena ed al quale erano presenti molte donne della nobiltà. Le risoluzioni del congresso auspicavano una rigorosa applicazione sull’obbligo scolastico, la fondazione di casse di assistenza e previdenza. Tutte le mozioni vennero accettate a maggioranza, tranne una sull’insegnamento religioso, che determinò la scissione delle donne cattoliche e la creazione dell’UDACI, poi Unione Femminile Cattolica. Nel 1909 l’Alleanza pro-suffragio lanciò un Manifesto di protesta alla riapertura del parlamento. Nel 1910 il Comitato Pro-Suffragio chiese al Partito Socialista di pronunciarsi sulla questione del suffragio femminile. Turati si pronunciò contro il voto alle donne perché pensava che il voto femminile poteva rafforzare le forze conservatrici. Anna Kuliscioff, compagna di Turati, gli rispose dalle pagine di “Critica Sociale” difendendo il suffragio femminile. Nel maggio del 1912 durante la discussione del progetto di legge della riforma elettorale, che avrebbe concesso il voto agli analfabeti maschi, i deputati Mirabelli, Treves, Turati e Sonnino proposero un emendamento per concedere il voto anche alle donne. Giolitti però si oppose strenuamente, definendolo “un salto nel buio”. Secondo Giolitti il suffragio alle donne doveva essere concesso gradualmente, a partire dalle elezioni amministrative: le donne avrebbero potuto esercitare i diritti politici solo quando avessero esercitato effettivamente i diritti civili. Nominò quindi un’apposita commissione per la riforma giuridica del Codice Civile, rimandando in pratica la questione sine die. Con la Prima Guerra Mondiale i posti di lavoro persi dagli uomini richiamati al fronte vennero occupati dalle donne, nei campi, ma soprattutto nelle fabbriche. Circolari ministeriali permisero infatti l’uso di manodopera femminile fino all’80% del personale nell’industria meccanica e in quella bellica, da cui le donne erano state escluse con la legge del 1902, ma con la fine della guerra però, le donne, accusate di rubare lavoro ai reduci, persero questi posti di lavoro. Nel dopoguerra riprese il dibattito sul voto alle donne ed il neonato Partito Popolare di Don Sturzo appoggiava il suffragio femminile. Il 6 settembre del 1919 la Camera approvò la legge sul suffragio femminile, con 174 voti favorevoli e 55 contrari. Le camere però vennero sciolte prima che anche il Senato potesse approvarla. L’anno successivo di nuovo la legge venne approvata alla Camera, ma non fece in tempo ad essere approvata al Senato perché vennero convocate le elezioni. Nel marzo del 1922, Modigliani presentò una semplice proposta di legge, il cui articolo unico recitava: “Le leggi vigenti sull’elettorato politico e amministrativo sono estese alle donne”. Tale proposta, ancora una volta, non poté essere discussa ed in ottobre vi fu la Marcia su Roma. Il fascismo in verità concesse il diritto di voto passivo ad alcune categorie donne per le sole elezioni amministrative. Mussolini stesso, intervenendo al congresso dell’Alleanza internazionale pro suffragio aveva detto che il fascismo aveva intenzione di concedere il voto a parecchie categorie di donne. La legge Acerbo, ironicamente chiamata del “voto alle signore”, concedeva infatti il voto alle decorate, alle madri di caduti, a coloro che esercitassero la patria potestà, che avessero conseguito il diploma elementare, che sapessero leggere e scrivere e pagassero tasse comunali pari ad almeno 40 lire annue. Il fascismo però subito dopo abolì quelle stesse elezioni amministrative a cui aveva ammesso le donne. L’Associazione per la donna fu sciolta, mentre la nuova presidente del Consiglio nazionale delle donne italiane fu nominata da Mussolini, segnando così la fine dell’associazione. L’Unione femminile nazionale rimase in vita a lungo, anche se priva di significato politico. Sopravvisse insomma soltanto l’Unione femminile cattolica, allineata al fascismo e al ruolo di subordinazione della donna ribadito dal Papa nell’Enciclica Casti Connubi. Nel frattempo il fascismo inaugurava una sua politica sul tema dei diritti delle donne. Le donne vennero spinta, per quanto possibile, entro le mura domestiche, secondo lo slogan: “la maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo”, scritto sui quaderni delle Piccole Italiane. Le donne prolifiche venivano insignite di apposite medaglie. L’educazione demografica e il controllo delle nascite era formalmente vietato dal Codice Rocco che lo considerava un “attentato all’integrità della stirpe”. Il nuovo Codice Penale confermò tutte le norme contrarie alle donne, aggiungendo inoltre l’art. 587 che prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere l’onore suo o della famiglia, il cosiddetto “delitto d’onore”. Le donne condannate per antifascismo durante il ventennio sono poche, ma le partigiane furono tutt’altro che poche. Secondo il CNL-Alta Italia le donne aderenti alla Resistenza furono: 75.000 appartenenti ai Gruppi di Difesa, 35.000 partigiane, 4563 tra arrestate torturate e condannate, 623 fucilate e cadute, 2750 deportate, 512 Commissarie di guerra, 15 decorate con Medaglia d’Oro. Se si pensa che il numero complessivo dei partigiani è valutato in circa 200.000 persone, si può vedere che le donne rappresentarono circa il 20% di essi, ma la percentuale è assai più alta fra i fiancheggiatori del movimento. Fra i caduti e i fucilati invece il loro numero delle donne è nettamente inferiore, circa l’1%, perché i combattimenti di prima linea, così come le fucilazioni, coinvolgevano raramente le donne, tenute la riparo dai loro commilitoni maschi. Il 1 febbraio del 1945, su proposta di Togliatti e De Gasperi venne infine concesso il voto alle donne. La Costituzione garantiva l’uguaglianza formale fra i due sessi, ma di fatto restavano in vigore tutte le discriminazioni legali vigenti durante il periodo precedente, in particolare quelle contenute nel Codice di Famiglia e il Codice Penale. L’emancipazione comunque andava avanti, anche se a piccoli passi, spesso ambigui. Nel 1951 viene nominata la prima donna in un governo, la democristiana Angela Cingolani, sottosegretaria all’Industria e al Commercio. Nel 1958 viene approvata la legge Merlin, che abolisce lo sfruttamento statale della prostituzione e la minorazione dei diritti delle prostitute. Nel 1959 nasce il Corpo di polizia femminile, con compiti sulle donne e i minori. Nel 1961 sono aperte alle donne la carriera nel corpo diplomatico e in magistratura. Come si vede la strada è stata lunga anche se oggi molte donne pensano che i diritti appartengano loro per destino. Sanno pochissimo di quello che si è fatto per ottenere questi diritti e non pensano che si possano perdere . Per questo spesso li trascurano e non pensano a difenderli. Per questo in una giornata così importante come l’anniversario della nostra Repubblica bisogna promuovere e raccontare con umiltà cosa è costato raggiungere la pace e una parità legale e le Consulte delle donne servono per questo.
Favria 2.06.2017 Giorgio Cortese.

Nella vita ritrovarsi insieme è una buona partenza, restare insieme è piacevole, ma riuscire a lavorare insieme è il raggiungimento di mete comuni.

Ogni momento la tela della vita è una tela vuota e sta a me cercare di creare attimo dopo attimo il capolavoro della mia vita quotidiana, con i piccoli ma importanti gesti.
Da nuvola a nubile
Oggigiorno si definisce nubile una donna non sposata che deriva dal latino nubere, sposarsi, dalla stessa radice di nubes, nuvola, perché la sposa veniva velata. Ma precedentemente nel mondo greco antico esisteva la figura del paraninfo, para-accanto, nymphel, sposa. Anticamente era la persona che nella cerimonia del matrimonio, accompagnava uno o entrambi gli sposi. Generalmente era un amico fidato dello sposo che accompagnava la sposa alla nuova casa. Era presente sia nelle cerimonie nuziali greche che in quelle latine. Successivamente nel tardo impero romano la parola paranymphos, indicava la donna che assisteva la sposa e la accompagnava al letto nuziale, quest’ultima figura, in latino, era chiamata pronuba, esisteva anche il maschile pronubo ma era poco frequente. Come si vede la voce latina probubum, in italiano pronubo è composta da pro e la radice di nubere, sposare. Col tempo, la parola paraninfo ha assunto anche significati diversi, come chi combina i matrimoni detto anche mezzano di matrimonio. L’origne del significato della parola celibe, sempre di origine latina, caelebs, forse deriva dal sanscrito kévalah, che significa solo o dal greco koite, letto nuziale e leipo, mancante), ossia colui che è privo di talamo, è l’uomo non sposato, oggi il single. Per quanto riguarda la parola talamo, deriva dall’antica grecia omerica, in greco thalamos, la stanza più interna della casa, dove sono custoditi i tesori, insomma la camera nunziale. Come si vede celibe e nubile hanno dei significato diversi e se uno è nel dubbio consiglio come emergenza di usare la parola single, la voce più moderna e socialmente corretta; a differenza delle altre, inoltre, può essere usata anche in riferimento a persona di sesso maschile ma perde quel significato di incanto di avvolgere la sposa sotto una nuvola di sinceri sentimenti. La parola nozze deriva dal verbo latino nubere, sposare, da nubes, (nuvola per indicare il velo con cui veniva ricoperta la sposa per sottrarla al rito tradizionale del rapimento. Parlando di matrimonio, ritengo che nella vita vivere i sogni è bellissimo. Vederli realizzare è meraviglioso. Ma viverli insieme è fantastico.
Favria 4.06.2017 Giorgio Cortese

La sfida quotidiana della vita è cercare di conservare tutto quello che sono disposto di cedere tutto quello che ho

La targa da tergo.
Parlavo con gli amici Pietro e Mauro questa mattina sulle targhe delle auto, quando avevano dopo la sigla della provincia la lettera dell’alfabeto e quando esta ultima era stata posta alla fine. La parola targa deriva dal franco, antico tedesco, targa, ed era in origine un piccolo scudo leggero utilizzato successivamente nell’armatura di fanti e cavalieri dell’ultimo medioevo e del Rinascimento, qui lo scudo, targa, assume la definitiva forma rettangolare o ovale ed era usato nei tornei, simile al pavese ma più piccolo. Come si vede da piccolo scudo, divine una lastra sottile e di limitate dimensioni di metallo, plastica o altri materiali, sulla quale sono incisi o scritti nomi, sigle, indicazioni e dati varî. La targa, in ottone, serve per mettere sulla porta di casa il proprio cognome ma anche sui portoni o negli ingressi dei palazzi, ci sono varie targhe di uffici e studî professionali. Ritornando alla targa degli autoveicoli, originariamente era denominata “placca numerata”, e l’invenzione della targa viene attribuita ai francesi che la imposero a Parigi per le vetture pubbliche negli anni ’60 del XIX secolo. Tuttavia nelle legazioni dello Stato Pontificio una disposizione dell’11 febbraio 1851, nata per evitare che i briganti utilizzassero i carri e i calessi rubati per trasportare la refurtiva o per fuggire più velocemente, obbligava i possessori di veicoli, calessi, vetture o carri, all’uso di una targa d’ottone a lettere e cifre in rilievo su fondo di colore diverso per ogni Legazione: rosso per Bologna, verde per Ferrara, nero per Ravenna, ceruleo per Forlì, come si è esposto prima, in Italia eravamo arrivati prima dei francesi. Parlando di targa non si può non pensare a tergo, termine, spesso usato nelle locuzioni “a tergo e da tergo” che deriva dal latino tergum, con il significato di lato posteriore, dorso, schiena, rovescio, retro. Il lato posteriore di un foglio di carta o in numismatica il rovescio della moneta. Pensando infine alla targa che potrei mettermi a tergo mi piacerebbe porla con questa iscrizione, nella vita di ogni giorno se essere felice è anche una questione di fortuna, ma essere migliore giorno dipende dalle scelte che facciAMO mantenendo salda la nostra morale
Favria 5.06.2017 Giorgio Cortese

Nella vita basta un istante per fare un eroe, ma è necessaria una vita intera per fare di un essere umano una persona onesta

Una strada….
La costruzione delle strade è un’opera di civilizzazione, senza la quale la nostra storia e la nostra cultura sarebbero impensabili. Ma la costruzione di strade non basta, bisogna anche provvedere alla loro manutenzione. Per questo, già nel XIX secolo, in Italia le strade vennero suddivise in cantoni. Questa parola deriva dal concetto provenzale di “canton” che significa angolo della strada, deriva il lemma francese cantonnier, in italiano cantoniere che è la persona a cui è affidata la sorveglianza e la minuta manutenzione di un tratto di strada e anche di strada ferrata, e pensate che esiste anche il femminile, per indicare una volta la moglie del cantienere, la cantoniera. Nel lontano 13 aprile 1830 il Regio Decreto del Re di Sardegna Carlo Felice istituisce la figura del Cantoniere, affidandogli il compito di manutenere e controllare un ‘cantone’ della strada. Per svolgere questi incarichi i cantonieri dovevano abitare in case site ai margini di ciascun cantone: nascono così le “Case Cantoniere”, le tipiche case di quel colore rosso pompeiano che le ha rese ormai celebri. Ma facciamo un passo indietro, la figura del cantoniere viene istituita per la prima volta in Francia sotto il regno di Luigi XIV, il Re Sole e poi tale istituzione venne potenziata sotto Napoleone. I Cantonieri e i Pontonieri erano figure fondamentali non solo per la normale manutenzione delle carreggiabili e dei ponti, ma anche e soprattutto per il controllo generale del territorio, erano strategici sia in pace che in guerra. Nell’ottocento in Piemonte si diceva che: “Una strada senza cantonieri era come un ospedale senza medici”. Nel 1824, un ragionevole numero di Cantonieri già operava lungo le strade del Regno Sardo e come detto prima con il Regio Editto del 1830 questa figura di operatore divenne insostituibile per la manutenzione della rete viaria rotabile. Per il riconoscimento sociale definitivo di questa determinante risorsa umana certamente influì il giudizio positivo che il Re Carlo Felice ebbe ad esprimere sull’utilità del nuovo corpo sulla rete stradale che veniva realizzata nel primo quarto di secolo dell’Ottocento in Italia. Ma dobbiamo aspettare ancora un secolo con la sangunosa prima guerra mondiale per avere la piena visibilità esistenziale del Cantoniere e del suo inserimento in una collocazione aziendale corretta e moderna. Ho parlato prima di cantoniere, si perché quando vennero istituiti i cantonieri i confini dei cantoni erano segnati con pietre con la relativa iscrizione. Quando la casa cantoniera era dimora di due cantonieri e delle loro famiglie, il confine idealmente era situato tra i due relativi cantoni e quindi al centro della casa. Anche qui l’origine della casa cantoniera si può identificare nelle stazioni di posta e cambio cavalli del XVIII e XIX secolo, alcune delle quali più tardi sono state convertite in case cantoniere. Nel 1982 viene introdotto il “Regolamento dei Cantonieri” che cancella il vecchio concetto di “cantone” e introduce “squadre, nuclei e centri di manutenzione” dotati di personale e mezzi. Oggi il cantoniere agisce con i più moderni mezzi e strumenti tecnologici. Ma ricordiamoci sempre del lavoro umile dei cantonieri di ogni Ente che ancora prima della loro professionalità mettono sempre davanti la dedizione “a mani nude”, fattore vincente sempre in ogni lavoro per garantire con successo la continuità del servizio, e sulla strada la transitabilità e la sicurezza. Certo la strada evoca lo sbigottimento nell’iniziare un nuovo cammino. Ma nella vita dopo ogni passo che percorro mi rendo sempre conto di come era pericoloso rimanere fermi.
Favria, 6.06.2017 Giorgio Cortese

Giorno dopo giorno sono chiamato a dimostrare di avere ancora coraggio e forza nei piccoli gesti ed azioni quotidiane

Il ciurmatore che ciurla nel manico, la fregatura.
La parola ciurmatore significa imbroglione, ciarlatano e deriva da ciurmare a sua volta dalla parola francese charmer, incantare. La parola francese originaria è charme che deriva dal latino carmen, formula di incantesimo. Tornando al ciurmatore, pensavo che fosse un elemento della ciurma, dell’equipaggio di basso rango della nave. Ma non è così, ed in italiano il verbo ciurmare oltre ad incantare ha assunto anche il significato di ingannare e raggirare. Il ciurmatore, è quella persona che incontriamo nel nostro quotidiano percorso, sempre pronto all’impostura, all’inganno, un ciarlatano che si nasconde dietro a modi gentili e di finto umile. Tenete presente che il lemma ciurmatore nasce descrivendo le “masche”, streghe e stregoni, persone che spacciavano pozioni magiche. I ciurmatori sono quelli che cercano di venderti contratti vantaggiosi, ma solo per loro, che ti propinano prodotti inutili, che promettono cose che non potranno mai mantenere. Persone che ciurlano nel manico, che come espressione potrebbe fare riferimento ad una forma abbreviata dal latino circulare, muoversi in giro, girare. E poi nel gergo popolare l’utilizzo dell’espressione “ciurlare nel manico”, visualizza un attrezzo di lavoro, come ad esempio una vanga, un martello, un badile o altro ancora, cui venga abbinato un manico troppo piccolo e inadeguato, affinché l’oggetto possa lavorare in modo appropriato. Insomma persone che oltre ad imbrogliare, non sono salde nelle loro idee e tentennano di continuo e non mantengono mai gli impegni e le promesse fatte ma anzi cerca sempre di appiopparti l’ulteriore fregatura. E qui arrivo all’ultima parola, fregatura con il significato di imbroglio, raggiro, danno, delusione derivato di fregare, dal latino fricare. Il “fregare’ è uno strofinare e nella lingua italiana si trova una ricchissima antologia di termini e locuzioni che usano quest’immagine che significano una complessa nuvola di concetti fra cui trovo l’imbroglio, il raggiro, l’inganno, il danno, il fallimento, la delusione. Sicuramente ognuno ha pensato alle sue personali fregature effettuate dal ciurmatore di turno, speriamo di non precipitare di nuovo con la prossima.
Favria, 7.06.2017 Giorgio Cortese

Certe persone pur di non fare i conti con la realtà preferiscono convivere con la finzione, spacciando per autentiche le ricostruzioni ritoccate o distorte su cui basano il loro quotidiano vivere

Al di qua ed al di là
La parola citeriore significa che sta al di qua, più vicino. Parola non facile che deriva dal latino, sempre lui, citerior, comparativo di citer, al di qua, a sua volta da cis, di qua dà. Il suo opposto è ulteriore deriva dalla voce latina ulter, che si trova al di là . Citeriore qualifica qualcosa che sta “al di qua”, o più vicino a me, il secondo qualcosa che sta “al di là”’ o più lontano. La prima disposizione di questi aggettivi è stata geografica come la denominazione della Gallia Citeriore, il nord Italia, al di qua delle Alpi e della Gallia Ulteriore, alla Spagna Citeriore, la parte orientale della penisola iberica, più vicina a Roma, e alla Spagna Ulteriore. Queste due parole sono state recuperate nel Cinquecento in italiano dal latino come voci dotte, ancora per indicare qualcosa che si trovasse al di qua o al di là di un confine, più vicino o più lontano rispetto al punto di riferimento, sia di spazio che geografico. Citeriore è rimasto legato a questo stretto uso, relegato, e scusare il gioco di parole, a significati citeriori, entro il suo primo perimetro. Nel Settecento il contrario ulteriore, pare con l’aiuto del gergo burocratico, ha acquistato i ben noti significati, ulteriori, di aggiuntivo, successivo, e adesso serve per dire che dobbiamo pagare ulteriori balzelli visto il continuo spreco di chi gestisce i soldi pubblici, ma questo è un problema citeriore del nostro portafoglio.
Favria 8.06.2017 Giorgio Cortese
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Nell’antica Grecia l’ipocrita era un attore, ma oggi il grosso problema è che adesso l’ipocrita è sceso dal palco e continua a recitare il suo ruolo