Immaginiamo la vita senza social! – Dalle Calende alle Idi! – Dal sale arabo allo zucchero! – Rebbio! – 17 Marzo evviva l’Unità D’Italia!- O egone, recte fecit? – Orione il mito!…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Immaginiamo la vita senza social!
Voglio condividere il pensieri che ho avuto una di queste mattine. Immaginare una vita senza social . I social media stanno ingannando il nostro cervello, attraverso l’algoritmo che cerca di modificare i nostri comportamenti. Ogni nostra azione on-line, da un mi piace, ha un contenuto pubblicato, fino alla condivisione di un articolo sui nostri profili, e tracciata, monitorata. Insomma forniamo dati gratis e li cediamo ricevendo in cambio un offerta di contenuti il più vicino possibile alle nostre aspettative. Ma questo meccanismo è nocivo, perché altera la realtà di cui siamo a conoscenza, sempre più simile a un mondo che ci somiglia ma che altro è che Grande Illusione. Insomma siamo vulnerabili alla manipolazione algoritmica e dei nostri comportamenti. Le varie piattaforme ci offrono dei contenuti mirati per orientare anche le nostre intenzioni di voto. Siamo immersi in una profonda palude digitale senza accorgerci noi siamo nel sistema, C’è la pubblicità che prima incontravamo nella pausa della partita del film a televisione o sul giornale oggi diventa pervasiva, indistinguibile. La verità si indebolisce, si affievolisce e non riusciamo più a catturarla. Siamo immersi, dentro una grande illusione. Vaghiamo su internet e senza renderci conto la manipolazione ci conquista sempre di più, un po’ come il cambiamento climatico. La conseguenza è che perdiamo i contatti umani e ci isoliamo, con l’iPhone ci rifugiamo nella grande illusione dei social, crediamo di essere liberi e invece non è vero. Siamo simili a dei cagnolini ormai addomesticati, viviamo nell’eterno presente con l’oblio del passato e con l’assenza di futuro. La vittima tutto questo non è l’economia ma la politica, la democrazia che retrocede sempre di più. Personalmente ritengo internet ed i social degli strumenti utili per servirmi ma non per diventarne schiavo. Buona navigazione ma con attenzione..
Favria, 13.03.2019 Giorgio Cortese

Nella vita siamo simili al grano che si piega al vento e spesso dimentichiamo quanto è facile essere spezzati.

Dalle Calende alle Idi!
Il calendario romano è stato oggetto di numerose revisioni. Marzo e Febbraio, almeno fino al 708, indicavano rispettivamente l’inizio e la fine dell’anno solare, secondo il volere di Numa, se non addirittura di Tarquinio. Il problema di attribuzione, però, non risolve le problematiche che la riforma voluta dai re comportò; la celebrazione di riti e sacrifici infatti avveniva fuori dal tempo, andandosi a collocare in stagioni che nulla avevano a che fare con le stesse. Il primo che tentò di fare ordine in tal senso fu Cesare, il quale suddivise l’anno in 365 giorni, lasciando che questo seguisse il corso del sole. Il mese intercalare fu eliminato, mentre decise che ogni quattro anni all’anno si aggiungesse un giorno in più. Il giorno aggiuntivo era stato collocato subito dopo le feste terminali, occupato in precedenza dal mese Mercidino ogni due anni. Inoltre, perché il primo dell’anno corrispondesse al primo di Gennaio, fra Novembre e Dicembre furono intervallati da 67 giorni. Di fatto, l’anno così concepito era di 15 mesi, tanto che si guadagnò fra gli studiosi e non a torto il nome di Anno di confusione. I cambiamenti, però, non incontrarono la stretta osservanza dei sacerdoti, a loro volta non particolarmente interessati a osservarne i precetti del nuovo calendario romano. Solo Augusto riuscì a imporne l’osservanza, riesumando vecchie cerimonie cadute nel dimenticatoio. Fu così allora che, come l’anno fu misurato seguendo il corso del sole, altrettanto i mesi furono concepiti seguendo il corso della luna. Il primo giorno di ogni mese prese il nome di Calenda, da calare: chiamare, annunziare . La decisione di quanti giorni intercedessero fra le calende e le none spettava al pontefice minore. Le None, probabilmente, venivano chiamate in questo modo in quanto poiché cadevano nel nono giorno davanti a quello delle Idi, quando il popolo si spostava dalla campagna alla città, presso il Re Sacrificolo, incaricato di pubblicare le ferie che si sarebbero dovute osservare in quel mese. Le Idi cadevano rispettivamente il giorno 13 in otto mesi dell’anno, mentre il 15 nei mesi di Marzo, Maggio e Luglio e Ottobre. Il termine Idi pare derivasse dal termine etrusco iudare, dividere, proprio in virtù del fatto che si collocava a metà del mese. Ma la lingua è anche però mutevole e quindi Idi potrebbe essere l’abbreviazione di Vidus, vedere, indicando quei giorni in cui la luna raggiunge il suo massimo splendore. In ogni caso, il mese fu così suddiviso in tre parti distinte, dove le Calende ne indicavano il principio, Le none il settimo giorno, le Idi il quindicesimo o, in alternativa, il tredicesimo giorno. I giorni si dividevano invece in festi, festivi, e profesti, non festivi e quindi lavorativi. A loro volta, tutti, erano divisi in fasti, giorni in cui si poteva tenere ragione, nefasti quelli in cui non si poteva, e intercisi quelli in cui si poteva ma solo in una parte della giornata. Ma fra i giorni c’erano anche gli atri, i viziosi e i religiosi, i quali genericamente succedevano alle Calende, alle None e alle Idi. Per finire, c’erano i comiziali, giorni in cui la gente aveva libertà di unirsi a comizio, appunto, fatto salvo quel giorno non coincidesse con una delle festa mobile. Una curiosità sono il modo di dire “alle calende greche” è una traduzione letterale del motto latino ad kalendas graecas, attribuita all’imperatore romano Ottaviano Augusto, il quale, secondo quanto scritto da Svetonio nell’opera “Vita di Augusto”, la utilizzava quando voleva fare riferimento a un pagamento che non sarebbe mai stato fatto. I Romani quindi prendevano i Greci come esempio, anche per sottolineare difetti e non pregi. Come già detto le Calende nel calendario romano, corrispondevano al primo giorno di ogni mese, periodo durante il quale venivano normalmente regolati i debiti e i prestiti; nel calendario greco, però, le calende non esistevano. Di solito, il citato modo di dire è dunque usato per definire un tempo che non arriverà mai, per indicare un qualcosa che si rimanda a una data indefinita. La stessa espressione è rimasta in tutte le lingue europee come riferimento a un fatto molto improbabile o rimandato a un futuro remoto; in tedesco esiste anche “Zu dem juden Weihnachten”, cioè “Al Natale ebreo”, che ha lo stesso identico significato. Sembrerebbe che Elisabetta I, nel 1577, abbia risposto alla richiesta di Filippo II di Spagna di non appoggiare i ribelli olandesi, di riparare i conventi distrutti da Enrico VIII e di riconoscere l’autorità papale, “I vostri ordini, caro re, verranno eseguiti alle calende greche…”
Favria, 14.03.2019 Giorgio Cortese

Il nostro destino non è questione di fortuna; ma è questione di scelte. Non è qualcosa che va aspettato ma piuttosto qualcosa che deve essere raggiunto

Dal sale arabo allo zucchero!
Oggi lo diamo per scontato, ma lo zucchero ha alle sue spalle una storia davvero avvincente. Questa sostanza cristallina, bianca e dolce, che si estrae dalla barbabietola o dalla canna da zucchero, usata per dolcificare cibi e bevande come parola deriva dal latino saccharum, a sua volta dal greco sakkharon, dall’arabo sokkar, dal persiano shakar, dal sanscrito sarkara che indicava originariamente la sabbia o i ciottoli e curiosità anche i calcoli biliari. Pare che i primi a scoprire lo zucchero furono i Polinesiani da cui sarebbe poi stata portata in India e in Cina. I Persiani, dunque, ne portarono l’uso, attraversando l’Asia, nel Medio Oriente. Pare che Alessandro Magno, il celeberrimo condottiero macedone aveva scoperto in Oriente una sostanza dolcificante molto simile al miele, conosciuto sin dai primi millenni Avanti Cristo. Greci e Romani conoscevano lo zucchero, importato dall’Oriente in piccole quantità, ed impiegato esclusivamente a scopi terapeutici. La diffusione dello zucchero arriva con Gli Arabi ed era un prodotto pregiato per gli occidentali, che usavano definirlo “sale arabo” ed ai tempi delle Crociate riuscirono a portarne cospicue quantità in Europa. La sua parziale diffusione nel Patrio Stivale avvenne grazie alle Repubbliche Marinare. Lo zucchero allora era raro e costoso, perché ricavato dalla canna da zucchero tipica dei climi tropicali, e non entrò nell’uso quotidiano come dolcificante, ma fu trattato alla stregua di una spezia medicamentosa da vendersi nelle botteghe degli speziali. A Venezia con l’accrescere della sua importazione, molte famiglie si arricchirono a tal punto da essere chiamate “re dello zucchero”. Allora per lo zucchero si esigevano pedaggi per permetterne il passaggio attraverso i vari paesi, tanto che un pane di zucchero poteva valere quanto un pane d’argento dello stesso peso. Lo zucchero allora veniva chiamato “sale bianco” o “sale dolce” era sinonimo di un elemento di potere e distinzione delle classi nobili, e veniva spolverato sulle pietanze per impreziosirle, o modellato nei “trionfi” che adornavano le tavole dei banchetti. Lentamente, come risulta da ricettari del ‘300, lo zucchero entrò nella preparazione di molte vivande, accrescendo la composizione di dolci complessi, e contribuendo ad esaltare il sapore agro-dolce che tanto attirava i gusti del tempo. Quando Cristoforo Colombo scoprì l’America, oltre ad importare numerosi prodotti agricoli in Europa, esportò nel Nuovo Mondo anche le canne da zucchero, che conobbero floride coltivazioni nei territori appena conquistati. La grande espansione della canna da zucchero si deve soprattutto alla scoperta e conquista di nuovi territori in Africa, oltre che in America. All’ampia diffusione dello zucchero, tuttavia, si lega anche la triste vicenda dello schiavismo, che indusse molti storici a pensare che se da un lato la produzione di zucchero avesse addolcito la vita degli Europei, dall’altro aveva macchiato di sangue la storia dei popoli di Africa e America. Per la produzione dello zucchero dalle note barbabietole, bisogna aspettare fino al 1575, quando l’agronomo francese Oliver de Serres, scoprì che sottoponendo la barbabietola comune ad un processo di cottura, si poteva ottenere uno sciroppo dolce, ma la sua scoperta restò nel dimenticatoio per molto tempo. Solo nel periodo Napoleonico venne valorizzata e riscoperta ’importanza della scoperta di de Serres. Questo avvenne dopo il Blocco Continentale imposto da Napoleone nel 1810, con il quale si vietava l’importazione di prodotti provenienti dall’Inghilterra e dalle sue colonie, il popolo francese ormai abituato al consumo di zucchero reclamava un dolcificante per le proprie pietanze. Fu così che, cercando soluzioni alternative, e tornò in auge la barbabietola da zucchero. Gli studi fondamentali in tal senso vedono la luce in Germania, dapprima con il chimico Andreas Sigismund Marggraf, successivamente con l’allievo Franza Karl Achard, che all’inizio dell’800 aprì il primo zuccherificio in Slesia. Napoleone tenne d’occhio queste brillanti scoperte, incentivandole anche sul territorio francese, così, anche dopo la sua caduta, la produzione della barbabietola continuò a svilupparsi in tutta Europa, accanto a quella di canna da zucchero. L’abolizione della schiavitù, inoltre, fece salire alle stelle il prezzo dello zucchero di canna, incrementando ancora di più la produzione della barbabietola da zucchero, a prezzi decisamente più abbordabili. Come si vede il primo tipo di zucchero usato dall’uomo è certamente quello di canna, che per molti secoli fu anche l’unico e per forti interessi protezionistici, lo zucchero di canna tornò a circolare liberamente nel nostro continente soltanto dopo il 1915. Esiste anche la melassa, ottenuta dalla cristallizzazione dello zucchero, sembra simile al miele e la si può consumare anche spalmata su una fetta biscottata e lo sciroppo d’acero, un liquido zuccherino usato come dolcificante naturale in alternativa allo zucchero. Ed infine l’aspartame che è di esclusiva provenienza chimica, ottenuto dall’unione di due amminoacidi, e cioè dell’acido aspartico e della fenilalanina con la presenza di una piccola quantità di metanolo. Dopo aver letto questa breve storia lo zucchero non sarà più qualcosa di banale e quotidiano da trasferire, quasi meccanicamente, dalla zuccheriera alla colazione, ma se riflettiamo in quella bustina o cucchiaino voliamo nei pensieri invisibilmente e all’improvviso, in India, sorvolando il Medio Oriente, le conquiste arabe nel Meridione italiano e l’America del sud. Se che assumiamo zucchero di canna, zucchero raffinato, zollette, zucchero a velo e dolcificanti se siamo in salute due cucchiaini di zucchero nel caffè o nel caffe-latte non hanno mai fatto male a nessuno né, in alternativa allo zucchero, si può pensare solo ad un esclusivo consumo forsennato di altri tipi di dolcificanti, anche naturali, nella vita è il troppo, inteso come abitudine al “troppo dolce”, che guasta non solo metaforicamente ma anche fisicamente.
Favria, 15.03.3.19 Giorgio Cortese

La ruota della vita gira. È vero che spesso gira dalla parte sbagliata, ma chi ci dice che noi giriamo da quella giusta?

Rebbio!
Rebbio dall’antico tedesco riffel, forca pettine con denti in ferro. Tale parola deriva dall’antico francone ripil o rippel da dove deriva il verbo inglese to reap, mietere. Dalla stessa radice deriva dal francese antico rifler il verbo inglese to rifle, arraffare. Oggi con rebbio si indica ciascuna delle punte della forca, del forcone e del tridente, del forchettone o della forchetta da tavola che hanno in genere quattro denti o rebbi. Si dice anche rebbio ciascuno dei due bracci del diapason e anche ciascuno dei due bracci delle manette usate per il trasferimento dei detenuti. Rebbiare deriva da rebbio e significa percuotere con i rebbî della forca e per estensione picchiare, bastonare in genere. Sempre dal rebbio deriva la parola retrattore, meno usato ritrattore che deriva da retrarre, sul modello dell’inglese retractor, uno strumento chirurgico, simile a una forchetta con i rebbi fortemente ricurvi, ma anche d’altro tipo, che serve a retrarre o divaricare i tessuti molli durante l’intervento, per agevolare l’accesso al campo operatorio sottostante. Come abbiamo detto all’inizio l’antica parola tedesca riffel significava anche forca che era l’attrezzo agricolo usato per smuovere e caricare fieno, paglia e prodotti analoghi; è per lo più fatto di un ramo biforcuto di legno duro, come il corniolo, oppure di un robusto manico di legno in fondo al quale è innestata una forcella di ferro a due o più denti, rebbi, leggermente arcuati ma anticamente era designata una lunga pertica terminante con due o più rebbi, usata come arma astata dal 15° al 17°
Favria, 16 marzo Giorgio Cortese

Nella vita di ogni giorno non abbiamo bisogno di dire a tutti a tutti quello che sappiamo fare, facciamolo e basta

17 Marzo evviva l’Unità D’Italia!
Il 17 Marzo si ricorda un importante evento per la storia italiana, l’unità d’Italia. Ma perché l’unità del nostro Paese si festeggia proprio questo giorno? La storia dell’Unità d’Italia è stata molto travagliata con tre di indipendenza per liberarci dalle oppressioni straniere e un’Unità raggiunta in più fasi e l’ultima si trascinò fino alla fine della Prina Guerra Mondiale. Insomma un percorso per la nostra Patria Indipendente, molto complicato. In questo marasma di eventi, lotte, tradimenti, sconfitte e riscosse, ci sono alcune date da tenere bene a mente ed una di queste è per l’appunto il 17 marzo 1861, giorno in cui Vittorio Emanuele II di Savoia, Re di Sardegna e Piemonte, nonché uno dei principali promotori del movimento indipendentista italiano, diventò il primo Re d’Italia. Na l’Italia su cui Re Vittorio Emanuele si apprestava a governare non era però, l’Italia che conosciamo ora. Gli austriaci e Borboni erano stati cacciati da gran parte dello Stivale, ma il Veneto era ancora sotto il dominio dell’Impero Asburgico, così come Trento e Trieste, mentre il Lazio era governato dal Papa, che non voleva riconoscere lo Stato Italiano. Ci vollero ancora altre due guerre, la Terza Guerra d’Indipendenza, la Guerra Franco – Prussiana e la Prima Guerra Mondiale, per vedere l’Italia tutta finalmente unita!
Favria 17.03.2019 Giorgio Cortese

Nella vita di ogni giorno le parole gentili non costano nulla. Non irritano mai la lingua o le labbra e rendono le altre persone di buon umore. Insomma proiettano la loro stessa immagine sulle anime delle persone, ed è una bella immagine

O egone, recte fecit?
Nella vita devo cercare di essere più arco che freccia, perché l’arco è la forza che trascina, la freccia è quella che la subisce. Una premessa prima di continuare, quella di essere preparato nel fare del bene all’umana ingratitudine. E poi il bene non è nella grandezza, ma la grandezza nel bene. Penso che la coscienza di una vita bene trascorsa e il ricordo di molte buone azioni danno grande felicità e rimangono negli animi delle persone che mi hanno voluto bene perché il bene fatto non è mai perduto, si moltiplica all’infinito. Ma per fare del bene devo evitare di comparire, insomma essere come un fiore profumato, come la violetta che sta nascosta ma si conosce e si trova grazie al suo profumo. Nella vita sarò colpevole di tutto il bene che potevo fare e che non ho fatto, ma devo stare attento che se il bene ha una causa, non è più bene, se ha un effetto, la ricompensa, pure questo non è bene. Perciò, il bene è al di fuori del circolo vizioso delle cause e degli effetti, del dare per avere. A differenza del male, il bene è invisibile e non si può calcolare, né si può raccontare senza togliergli eleganza e senso. Il bene è fatto di un’infinità di piccole azioni, che, una dopo l’altra, forse un giorno, riusciranno a cambiare il mondo. Certo fare del male è facile, a volte basta allungare un braccio, fare un click suk mouse della tastiera del computer, invece per fare del bene è necessario uno sforzo, infatti l’occasione di far del male si trova cento volte al giorno, quella di far del bene forse una volta nella giornata. Ogni giorno il bene non devo farlo per sentirmi buono o per farmi bello, ma per sentirmi giusto nell’animo. Se faccio del bene a volte mi attribuiscono secondi fini egoistici, a volte fini elettorali, non importa, io continuo a fare del bene. Se realizzo i miei obiettivi, troverò falsi amici e veri nemici, ma pazienza. Se il bene che ho fatto domani verrà dimenticato. Beh non importa, continuo nel mio piccolo a fare del bene, perché il mondo è il mio paese, tutti gli uomini sono miei fratelli, e fare del bene mi procura felicità nell’animo. Alla sera prima di dormire mi viene spontaneo rivolgermi a me stesso nel fare un bilancio della giornata e pensare: “ Oh io, ho fatto del bene? O egone, recte fecit?
Favria 18.03.2019. Giorgio Cortese

Le persone possono dubitare di ciò che dico ma crederanno a ciò che compio.

Orione il mito!
Orione nel mito greco, era un bellissimo gigante generato dall’orina di Zeus, Giove; Poseidone, Nettuno; ed Hermes, Mercurio. Divenuto compagno di caccia di Artemide, si vantò di voler uccidere tutti gli animali della terra. La dea Gaia, arrabbiata per questo, mando uno scorpione ad ucciderlo. Zeus, mosso a pietà, trasformò il cacciatore e lo scorpione in costellazioni, ponendoli agli opposti del cielo. La costellazione dello Scorpione, sorge esattamente quando quella di Orione tramonta, affinché il terribile mostro non possa più insidiare il grande cacciatore. In altre versioni del mito, Orione fu ucciso da Artemide stessa, gelosa perché il gigante avrebbe molestato alcune sue compagne, tra cui le Pleiadi. Lo Scorpione, servo di Artemide, si nascose nella capanna del cacciatore e, all’alba, quando Orione e il suo cane Sirio tornava dalla caccia, lo colpì a morte. Da allora Orione splende con una cintura è un pugnale mente affronta la carica del Toro della costellazione vicina, non lontano dal Cane Maggiore, con la stella Sirio, la più luminosa dell’emisfero boreale. Secondo il mito, il gigante fu accecato sull’isola di Chio, da Enopio, dopo aver violentato la figlia Merope. Orione camminando sulle acque raggiunse l’isola di Lemno, e qui il dio Efesto, Vulcano, gli concesse come guida il nano Cedalion . Il nano si appollaiò sulla spalle del gigante e lo condusse verso est, verso la luce, Orione riacquistò la vista guardando il sole nascente, o forse prendendo Eos, Aurora, in moglie. Orione è presente nei miti di fondazione della Sicilia, secondo Diodoro Siculo. Orione partecipò alla costruzione della città di Zancle, Messina. Per arginare le mareggiate che salivano sulla costa, costruì un terrapieno davanti al porto di Messina, Capo Peloro, In cui fu eretto un tempio a Poseidone, Nettuno. Orione un mito Mediterraneo che collegava isole coste, e proteggeva i naviganti tra cielo e terra e adesso con gli altri miti sopra elencati si osservano nel silenzio delle notti stellate.
Favria, 19.03.2019 Giorgio Cortese

Ogni giorno scrivo quello che sento e mai quello che penso. Nella vita tutto passa, ma non certe emozioni, loro resistono al tempo, vivendo nel mio cuore per sempre.
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