Gli argonauti – Arcadico. – La logica della tre N – S.Lucia – Dal persiano al pigiama – Lustro illustrato per persone illustri – Lo zio Sam…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

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A fine anno, sabato 15 Dicembre dalle ore 15,00 alle ore 19,00 in occasione degli auguri di S. Natale con i donatori e per passare alcune ore di allegra convialità, ci sarà consegna panettone,. Bottiglia, calendario ai donatori che hanno effettuato una donazione nel 2018, e alla medaglie oro. Ci saranno le votazioni del Direttivo Fidas Favria triennio 2019-2020-2021. Cari donatori se volete fare parte del Direttivo abbiamo bisogno di Voi e se qualcuno se la sente, anche del Presidente! Per info contattatemi in privato cell. 3331714827

Natale è quando il vero amore viene a dimorare nel tuo cuore.

Gli argonauti
Una leggenda formatasi sui racconti dei più antichi viaggi greci verso il Mar Nero, si arricchì di infinite tradizioni locali e di particolari novellistici ed ebbe numerosi riflessi anche nelle arti figurative. Nella forma più completa è narrata dal poema in 4 libri Le Argonautiche di Apollonio Rodio. Ma già prima se ne ha menzione in Omero e e più particolarmente in Esiodo. Tra gli scrittori latini il mito è trattato specialmente nelle Argonautiche, in 8 libri, di Valerio Flacco. Secondo il mito gli Argonauti sono degli antichi eroi greci, 55 per la precisone che, imbarcati sulla nave Argo, parteciparono al seguito di Giasone al viaggio dalla Grecia alla Colchide, attuale Georgia nel Caucaso, sulle estreme rive del Mar Nero, per la conquista del vello d’oro. Argonauti in greco vuol dire, i navigatori della Argo, costruita con l’aiuto della dea Atena: tra gli altri eroi erano presenti oltre a Giasone, Ercole, Orfeo, Castore e Polluce, Acasto, Anceo, Anfiaro, Calai Calai, Echione, Erito, Eufemo, Ida, Ifito, Ila, Linceo, Meleagro, Oileo, Peleo, Piritoo, Polifemo, Telamone, Zete, Mopso, Idmone per citare i più famosi. L’impresa degli Argonauti è una delle più affascinanti del mito greco. Il tema del viaggio sulla nave Argo e dell’avventura in tanti luoghi misteriosi si intreccia con quello della storia d’amore tra Giasone e Medea: dei ed eroi, ma anche una fanciulla dotata di straordinari poteri magici, agiscono su uno sfondo remoto e selvaggio, tra insidie mortali, mostri e prodigi. Ma faccimao un passo indietro, Pelia ha ingiustamente sottratto il trono di Iolco, in Tessaglia, al fratellastro Esone. Quando il figlio di quest’ultimo, Giasone, chiede che il regno gli venga restituito, Pelia pone come condizione che egli riporti in Tessaglia il vello d’oro del montone sul quale un giorno due giovani, Frisso ed Elle, erano volati via per scampare al padre Atamante che voleva sacrificarli. Elle era caduta nel tratto di mare che da lei prese il nome di Ellesponto, in greco mare di Elle. Frisso era invece giunto sulla costa orientale del Mar Nero, nella Colchide, l’attuale Georgia e lì il montone era stato sacrificato e il suo vello consacrato nel bosco del dio Ares, ben sorvegliato da un mostruoso serpente sempre vigile. Pur consapevole dei rischi, Giasone accetta. Il viaggio è pieno di pericoli. Gli eroi indugiano a lungo a Lemno, ove le donne, che avevano sterminato i loro mariti, li trattengono con le armi della seduzione. Si scontrano per un tragico errore con i Dolioni, che pure li avevano accolti ospitalmente. Perdono Ercole, che rimane in Misia in cerca del suo giovane servo Ila, rapito dalle Ninfe. Poi approdano nella terra dei Bebrici, ove Polluce in una gara di pugilato sconfigge e uccide Amico, violento re del luogo. Incontrano l’indovino Fineo e lo liberano dal tormento delle Arpie, ricevendone in cambio importanti consigli sulla prosecuzione del viaggio. Primi tra gli uomini riescono a passare indenni, con l’aiuto divino, lo stretto delle Simplegadi, rocce mobili cozzanti l’una contro l’altra, l’odierno Bosforo. Secondo una tradizione il nome di Ponto Eusino, antico nome del mar Nero, il nome Eusino, in greco ospitale, avrebbe sostituito il primitivo nome di inospitale, dopo il passaggio degli Argonauti. Poi sfuggono con un astuto espediente all’insidia degli uccelli dell’isola di Ares, che usano le loro penne come frecce, e giungono infine in Colchide presso il re Eeta. Eeta non respinge formalmente la richiesta di Giasone di riavere il vello d’oro, ma gli impone una prova di valore, certo che in essa l’eroe troverà la morte: aggiogare due possenti tori dagli zoccoli di bronzo e spiranti fiamme dalle narici, arare il duro campo di Ares, seminarvi i denti di un drago e uccidere i guerrieri che, all’istante, germineranno dalla terra. Giasone è sgomento, ma in suo aiuto interviene la figlia del re, Medea che, che, innamoratasi del giovane eroe, lo fortifica con le potenti arti magiche di cui è esperta, consentendogli così di superare la prova. Con un filtro la fanciulla addormenta poi il serpente posto a guardia del vello d’oro, e Giasone può facilmente conquistarlo. Inizia la fuga, lunga ed estenuante, con i Colchi che inseguono e con Medea che, una volta raggiunta, non esita a farsi complice di Giasone nell’uccisione del proprio fratello Apsirto. La nave Argo riattraversa il Ponto Eusino, il il Mar Nero, risale la corrente dell’Istro, il Danubio, si immette nell’Adriatico, poi attraverso l’Eridano, il Po, e il Rodano giunge nel mare Ausonio, Tirreno. Dopo una sosta al promontorio abitato dalla maga Circe, dove Giasone e Medea vengono purificati dell’uccisione di Apsirto, gli Argonauti toccano l’isola delle Sirene, passano tra Scilla e Cariddi e approdano all’isola dei Feaci, ove sono raggiunti nuovamente dai Colchi, ma il re Alcinoo li respinge dopo aver unito Giasone e Medea in matrimonio. Sbattuti sulle coste della Libia da una tempesta, gli Argonauti sono costretti a portare la nave sulle spalle attraverso il deserto. Riprendono il mare e giungono a Creta, dove Medea con la sua magia sventa la minaccia del gigante di bronzo Talos. Infine, dopo altre tappe, la nave fa ritorno in Tessaglia.
Favria, 10.12.2018 Giorgio Cortese

Vorrei che per ogni anziano ci fosse un pasto caldo ed un abbraccio. Per ogni bambino un giocattolo sotto l’albero. Per ogni famiglia la maggior sicurezza di poter far fronte alla vita in modo ancora dignitoso perché nessuno deve toglierci la dignità.

Arcadico.
Arcadico oggi significa, idilliaco, bucolico; lezioso, frivolo, superficiale. La parola deriva dal latino arcadicus, dell’Arcadia. L’Arcadia è l’antico nome di una splendida regione, che si trova al centro del Peloponneso, in Grecia, i cui boschi erano la celebre dimora del dio Pan. Ma questa regione si trova anche al centro di una questione curiosa, che vi porta una gradevole e fine vena di polemica. La letteratura bucolica, quella che per intendersi narra di vicende campestri idealizzando un’ambientazione tutta ninfe e pastorelli zufolanti e amori e gare di poesia, è vecchia di ventitré secoli, Teocrito di Siracusa scrisse nella prima metà del terzo secolo a.C., e ha avuto un successo notevole e durevole. Alla fine del Quattrocento Jacopo Sannazaro scrisse il poema, Arcadia, in cui inquadrava le sue vicende pastorali nella cornice di un’Arcadia ideale. E quando alla fine del Seicento un gruppo di nobili e artisti volle fondare a Roma un’accademia che fosse fulcro di un movimento antibarocco, ritenendo essi il barocco una corrente d’insopportabile bruttezza, si rifecero al paradigma classico della letteratura bucolica, pastorale, e riprendendo la suggestione di Sannazaro crearono l’Accademia dell’Arcadia. Questa accademia sorse quando morta Cristina ex-regina di Svezia, 1689, che soleva accogliere nel suo palazzo a Roma letterati, poeti, scienziati, alcuni di essi decisero di continuare a radunarsi, e fondarono l’Arcadia. Dei nove fondatori, due erano torinesi, due genovesi, due toscani, quasi tutta Italia terra dunque rappresentata. Gli accademici assunsero nomi pastorali. Verso la metà del secolo XVIII, l’ufficio dell’Arcadia stava per finire e all’accademia nazionale subentrava un’accademia puramente romana, che visse stentatamente anche nel sec. XIX, anzi sino a questi ultimi anni, e che è stata nel 1925 trasformata in Accademia letteraria italiana. L’Arcadia vera, l’Arcadia genuina, della quale si deve parlar con rispetto, perché fu l’espressione d’un momento, qual che si sia, della vita spirituale della nostra Nazione, è l’Arcadia della prima metà del Settecento. Che cosa fece? Reagì al Barocco del seicento.
Favria 11.12.2018 Giorgio Cortese

Ciao, sono il Natale che si materializza nella Tua realtà, sono vero, sono freddo, Ti porto un sorriso per scaldarti il cuore a Te e a chi Ti sta vicino, sono semplice, come ogni anno non cambio gioco, entro nella tua casa semplicemente per augurarti un buon Natale.

La logica della tre N
Appare curiosa l’idea di Platone per cui ciò che più serve per essere un vero filosofo, è il coraggio. Ancora più sorprendente è che questa tesi venga sostenuta nella e mezza discussione sull’amore in quella notte di discorsi che fu il Simposio. È curioso, ma è così e qualche ragione probabilmente l’aveva. Perché parlava dell’amore che è un modo per parlare di noi, per capire chi siamo. E per capire che siamo ci vuole coraggio! Quando Aristofane aveva cominciato a raccontare la sua buffa storia, gli altri si sono messi a scherzare, ridendo di quei primi uomini con due facce, quattro gambe e quattro braccia, delle sfere, che seminavano figli nella terra e si muovevano rotolando. In realtà erano esseri perfetti, potenti e veloci che avevano cercato di scalare il cielo. Per punizione sarebbero stati tagliati in due come uova o pere. Fu una punizione dolorosa, divisi, questi esseri si scoprirono incompleti, non facevano più nulla. Cercavano disperatamente la metà perduta, e se la ritrovavano, si lasciavano morire abbracciati, stretti nel tentativo di tornare uno da due che erano diventati. Morivano di desiderio, così Zeus dovette intervenire una seconda volta per salvarli.Comando che i loro organi genitali venissero spostati dall’interno, accoppiandosi di uomini forse avrebbero trovato orecchie al loro dolore, tornando a vivere. In parte accade, ed ecco perché l’amore è così importante: ci salva. Ma non del tutto, perché l’inquietudine in quella divisione in due rimase, e rimane tutt’ora. La storia buffa di Aristofane ci mette davanti a noi stessi, essere imperfetti, mancanti e per questo viviamo nel desiderio di completarci. Parlare di amore e dunque un modo per parlare di noi dei nostre mancanze. Un tempo, il tempo del mito e dell’infanzia, dell’innocenza e dell’ignoranza, eravamo completi, non ci mancava nulla stavamo bene. Adesso, però è solo mancanza, si può affogare come scriveva Eugenio Montale. Ma che cosa stiamo davvero cercando? Cerchiamo quello che ci manca per essere noi stessi, capire chi siamo, quale è il nostro posto nel mondo, e il senso che vorremmo dare alla nostra esistenza. Questo è il desiderio profondo, e per questo il coraggio è così importante. Ci vuole coraggio per cercare se stessi riconoscendo quali sono i nostri limiti e difetti. Alcibiade, il più bello e più desiderato di Atene, imparò a sue spese, ma purtroppo quando era troppo tardi! Alcibiade aveva avuto la fortuna di frequentare Socrate, avevano parlato per notti intere, ma alla fine gli era mancato il coraggio di essere veramente se stesso e si è lasciato abbandonare alla corrente dei luoghi comuni, delle abitudini e dei pregiudizi. Insomma la via meno faticosa, quella più facile, più generosa di riconoscimenti pubblici. Alcibiade aveva sprecato la sua vita e dovette riconoscerlo alla fine, ubriaco di lacrime davanti ad Aristofane e agli altri invitati che in lui forse rivedevano se stessi. Perché la sua non è una storia rara, è un fatto una tendenza che abbiamo nel omologarci. Questa tendenza ad omologarci ci spinge a rinunciare alla nostra specificità, obbedendo alla logica del gruppo, la terribile logica delle tre N: È normale, sei Normale vuol dire che è Naturale, e allora è Necessario, deve essere così non può essere che così! Se non rispetti la regola non hai un posto nell’ordine previsto delle cose? Molte volte sì notano le differenze più da quello che percepiamo che dagli occhi poi dalla mente. Probabilmente negli sguardi pensiamo con l’abitudine. Ognuno di noi e la combinazione di qualità, caratteristiche, progetti e paure, speranze. Una serie pressoché infinita di possibilità. Non ci sono due cose identiche ne tantomeno ci sono cose perfette. La nostra vita come esseri umani è una grandiosa la lezione su di un tema, senza uno spartito fisso già scritto. Nella nella vita di ogni giorno quello che sarà di noi lo decidiamo noi stessi, quello che diventeremo e quindi saremo è determinato da quello che facciamo, da come affrontiamo la realtà. Ognuno di noi è preso ogni giorno dal proprio piccolo spazio che occupa con le sue qualità e sui limiti e davanti le sfide della vita. Siamo tutti nello stesso tempo uguali diversi. Incompleti, tutti desideriamo, cerchiamo le stesse cose ma ognuno di noi a proprio modo. Certo vorremmo tutti evitare di diventare Alcibiade non cedendo alle sirene dell’omologazione, del conformismo condannandoci ad una vita scialba che non è la nostra, ma dovremmo prima di tutto imparare a riconoscerci nella nostra unicità e le nostre imperfezioni che a volte significa solitudine e a volte è la premessa per la comunanza più piena con chi ci sta intorno.. In conclusione il coraggio non serve solo ai filosofi ma tutti noi ogni giorno per evitare la regola delle tre N
Favria 12.12.2018 Giorgio Cortese

Natale è bello con l’albero, il presepe, lo spumante e il panettone. Ma il Natale è un vero Natale, solo se a dividere tutto hai vicino le persone che ami.

S.Lucia
Lucia non è il femminile di Lucius perché i due nomi hanno l’accento su sillabe diverse. L’antico femminile latino diventò Lucìa per influsso della lingua greca, che trascriveva il nome romano in Loukìa. La versione greca è dovuta al fatto che la santa protettrice della vista era di Siracusa e probabilmente di famiglia greca. Alla base di questo nome c’è il verbo latino lucere, che significa ‘fare luce’. Secondo la tradizione veniva imposto ai bambini nati durante le ore di luce. La festa di santa Lucia cade il 13 dicembre ed è celebrata con particolare solennità in varie zone d’Italia e in Paesi stranieri, come la Svezia, dove inaugura il ciclo delle feste natalizie
Favria 13.12.2018 Giorgio Cortese

Buon Natale a tutti voi, e che queste candele possano accendere una nuova luce nei nostri cuori, la luce della speranza.

Dal persiano al pigiama
Se oggi dico pigiamo penso subito alla veste da letto costituita di due parti distinte: pantaloni e giacca. Un oggetto comunissimo, di uso quotidiano, che ci fa subito pensare al conforto del letto e del riposo. Difficile quindi immaginare che questo termine sia entrato nella lingua italiana solo agli inizi del Novecento, trovando subito grande fortuna nell’uso e diventando quindi irrinunciabile. Il termine pigiama è stato introdotto nelle lingue occidentali dal persiano. La parola originale Payjama aveva il significato di indumento per le gambe. L’utilizzo mondiale del pigiama, sia la parola, che l’indumento è il risultato della presenza britannica nell’Asia del Sud nel diciottesimo e diciannovesimo secolo. Questo indumento fu prima introdotto in Inghilterra nel 1700, ma la sua moda passò rapidamente. Nel 1870 circa, essi riapparirono nel mondo occidentale come abbigliamento maschile notturno, dopo il ritorno dei coloni britannici. Noi lo abbiamo acquisito dall’inglese, è vero, ma in questo come in tanti altri casi è palese come il passaggio di materiale linguistico sia raramente a senso unico: gli inglesi hanno infatti a loro volta accolto la parola nel 1800, quando l’occupazione britannica in territorio indiano cominciava a farsi sempre più solida. L’imperialismo ha senz’altro esportato e imposto, spesso in maniera brutale, usi, costumi e repertorio culturale, ma evidentemente quel pantalone largo e comodo tipicamente indossato dalle popolazioni locali è sembrato un’ottima alternativa alla camicia da notte, e assieme all’indumento è stata adottata anche la parola che lo designava nella lingua originaria. Certamente poi la diffusione del capo in tutto il mondo ha influito anche sul significato del termine: sappiamo infatti molto bene che ora il pigiama è per noi sempre un composto di giacca e pantaloni e non soltanto il pezzo inferiore. Ma anche il percorso di adattamento grafico nelle varie lingue è curioso e rilevante: in Gran Bretagna l’attuale grafia pyjamas è stata preceduta da almeno altre tre più simili a quella originale, ovvero paj jamahs, pigammahs e peijammahs, mentre negli Stati Uniti, a partire dalla metà del Diciannovesimo secolo fino ad oggi, è stata preferita la versione pajamas. Per quanto riguarda l’italiano, i tempi erano di certo quelli in cui l’adeguamento dei prestiti era assai più comune rispetto ad oggi, e perciò difficilmente percepiamo questo termine come estraneo.
Favria 14.12.2018 Giorgio Cortese

Le luci ad intermittenza ci fanno ricordare che il Natale sta arrivando, ed è bello vedere e sentire come tutto intorno a noi cambia. Ma è l’amore che portiamo dentro a rendere speciale il momento sopratutto se accanto troviamo persone a cui vogliamo bene.

Lustro illustrato per persone illustri
Lustro significa lucente, prestigio. La parola deriva dal latino lustrare illuminare, collegato a lux luce. Si dice anche lustro come significato di quinquennio e la parola deriva sempre dal latino lustrum, rito di purificazione. E’ incerto il punto di contatto fra le parole latine, così simili fra loro, che hanno dato origine al lustro-lucente a al lustro-quinquennio è forse non esiste. L’aggettivo lustro, che scaturisce dal latino lustrare, cioè illuminare, e mi parla di una superficie liscia e brillante: come le scape ben pulite che possono essere lustre le scarpe ben pulite per la festa, può essere lustra la mia capoccia pelata, e lustra l’automobile lavata faticosamente – finché non piove. Un aggettivo direttamente connesso alla luce, alla luminosità, alla lucentezza; ed è facile intendere come è che una qualità di così grande impatto visivo sia passata figuratamente a indicare il prestigio, l’onore, la fama: la persona di successo dà lustro al piccolo paese in cui è nata e cresciuta; la vittoria difficile e prestigiosa dà lustro all’atleta; e l’adesione entusiasta di un’autorità dà lustro a un progetto. Curiosa è la storia del lustro inteso come periodo di cinque anni: il lustrum, nell’antica Roma, era un rito di purificazione. Non era legato, come altri, all’espiazione di una colpa, ma era genericamente volto ad attrarre il favore della divinità, e poteva prevedere sacrifici di animali o aspersioni d’acqua con fronde di lauro o di olivo. In particolare, questo rito veniva officiato dai censori, magistrati eletti a cadenza quinquennale, alla fine del loro mandato, compiuto il censimento. La cadenza del rito ha quindi suggerito di estendere il nome del rito stesso al periodo che separava il precedente e il successivo. Certo, oggi questa parola ha un saporerétro, ma è una parola piacevole e interessante: quello del lustro è un lasso di tempo consistente, ma… non troppo.
Favria, 15.12.2018 Giorgio Cortese

Natale! Un giorno per condividere, per riflettere, per donare a chi non ha nulla, non dimenticarlo!. Sereno Natale a tutti.

Lo zio Sam.
Tutti ricordiamo l’immagine dello Zio Sam conil dito puntato verso chi guarda mentre intima di arruolarsi nell’esercito. Il poster I Want You for U.S. Army, stampato in occasione della Prima guerra mondiale, è il più celebre manifesto per il reclutamento militare di tutti i tempi. Eppure il suo protagonista, tra i personaggi più famosi e longevi della storia degli Stati Uniti, non era certo nuovo: aveva già oltre un secolo di vita alle spalle. Lo Zio Sam nacque in maniera fortuita a pochi mesi dall’inizio della Guerra del 1812 con il Regno Unito, oggi una “guerra dimenticata” ma che allora non mancò di infiammare il patriottismo degli americani. Con i militari impegnati sul fronte canadese e accampati poco a sud di Troy, un villaggio nel Nord dello Stato di New York, il contractor dell’esercito Elbert Anderson si era accordato con la vicina impresa di famiglia di Samuel Wilson per la fornitura di alcune migliaia di barili contenenti carne sotto sale. Un giorno un lavoratore della fattoria cominciò a chiedere come mai i barili fossero marchiati con le iniziali “E. A.” e “U. S.” Al tempo le iniziali “U. S.” non erano ancora entrate nell’uso comune come abbreviazione di “United States”, il governo federale degli Stati Uniti che ne era formalmente il destinatario. Perciò gli fu risposto da Elbert Anderson, che gestiva i barili e che erano marchiati con il suo nome, che li aveva acquistati dal signor Wilson detto familiarmente Uncle Sam. Il signor Wilson era infatti un uomo benvoluto e conosciuto lungo la valle del fiume Hudson semplicemente come Uncle Sam, invece che con il suo vero nome. La storia si diffuse tra i militari dell’accampamento non lontano, ma i soldati cominciarono a pensare a Uncle Sam come a qualcuno che decideva anche della loro sorte, oltre che dei rifornimenti. Grazie ai militari, lo Zio Sam finì presto sulle pagine dei giornali locali, ma quel nome non era più messo in relazione con il signor Wilson, era diventato un modo nuovo con cui chiamare il Paese. Nel 1830 la New York Gazette scriveva per la prima volta delle probabili origini del soprannome, che nel frattempo si era diffuso negli Stati Uniti. In America al tempo c’erano già personaggi maschili, come Yankee Doodle e Brother Jonathan, che in modo simile davano un’espressione popolare alla vitalità del carattere nazionale. Brother Jonathan, frequente presente sulla stampa politica illustrata, fu il più diretto precursore dell’immagine dello Zio Sam. Per la prima comparsa di Uncle Sam tuttavia, rimasto per anni soltanto un nome, sidovette aspettare la litografia del 1832, in cui veniva attaccato il presidente Andrew Jackson per la sua battaglia contro la Banca nazionale. Lo Zio Sam, seduto al centro della scena con un volto stanco ed emaciato, del tutto privo di barba, era circondato dal presidente e dai suoi falsi dottori impegnati a cavargli il sangue. Indossava un’ampia veste a strisce che gli arrivava ai piedi, un foulard scuro pieno di stelle e un copricapo che ricordava il berretto della libertà in auge durante la rivoluzione. Ma fu un’illustrazione satirica del 1840 sempre sul tema della Banca nazionale. Non solo lo Zio Sam sembrava tornato in buona forma, ma soprattutto inaugurava il cappello a cilindro, la giacca lunga con le code e i pantaloni a righe, il vestito insomma con cui si sarebbe fatto conoscere dal mondo intero. Con la guerra civile venne diffusa la sua immagine, arruolato dalla causa unionista contro la ribellione del Sud. Con il suo retaggio di uomo del Nord e del governo federale, finì per fondersi con la longilinea figura dello stesso presidente Abraham Lincoln, soprattutto dopo che quest’ultimo si fece crescere la barba, la prima portata da un inquilino della Casa Bianca. Nel dopoguerra, grazie all’artista Thomas Nast, il celebre cartoonist dell’influente settimanale repubblicano Harper’s Weekly di New York, lo Zio Sam era ormai un uomo arrivato, che aveva trovato finalmente la sua immagine stabile e definitiva. Fisicamente era asciutto e slanciato, aveva l’aria intraprendente ma al contempo saggia, suggerita dal pizzetto e dai capelli bianchi. Era entrato di fatto nel bagaglio simbolico a cui attingevano i disegnatori politici della carta stampata, alla pari di personaggi come John Bull, che indicava la Gran Bretagna, o l’elefante e l’asinello, che rappresentavano il Partito repubblicano e quello democratico.
Favria,16.12.2018 Giorgio Cortese
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