Gatassalvaj o Gatass Pitois. – Assediati! – Il popolo che si fa servo – Il Ring degli Avari! – Quale è la nostra lingua madre? – Cantare! – collerico. – Verità su Regeni!…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Gatassalvaj o Gatass Pitois
La parola “gatass” in piemontese vuole dire un gatto grande e grosso, “salvaj”, selvatico “pitois”, in piemontese è un francesismo da putois, puzzola che deriva dal latino putidum puzzolente. Dopo questa doverosa precisazione linguistica posso iniziare a raccontare la storia che si tramanda da generazione e che ormai poche persone ne hanno ancora memoria. Si narra un piccolo ayrale, una cascina al margine del bosco della Fraschetta, dove viveva una povera famiglia composta da un padre sempre preso dal suo lavoro di boscaiolo e dalla figlia adolescente, la madre purtroppo era morta nel darla alla luce. Una sera la ragazza mentre era uscita nel prendere della legna da mettere nel camino, rischiarando il cammino con una lampada ad olio, eravamo già in autunno inoltrato ed il vento fischiava forte tra gli alberi e lo si sentiva nello stormire tra le piante nascoste dall’oscurità della notte. Si avvicinò alla legnaia e vide un grosso gatto selvatico. Un gatassalvaj, un bellissimo grande e grosso gatto selvatico e subito pensò ad una lince, ma poi avvicinandosi con la lanterna notò una striatura nera sul dorso, quattro strisce nere sulla nuca e la coda grossa con la punta arrotondata, grossa come quella di una puzzola, con larghi anelli neri. Era forse il gatto che parlavano antiche leggende, magari era proprio quello il gatto magico, ma poi vide che la povera bestia aveva delle profonde ferite, forse frutto di una sua lotta con qualche famelico lupo o volpe che si aggiravano nel bosco della Fraschetta lì vicino. La bambina prese la legna per il camino, illuminando il suo percorso con la lampada ad olio e poi ritornò dopo cena con una ciotola di latte e degli stracci per fasciargli le ferite, e con la paura che questo grosso felino potesse graffiarla o morderla, ma lui la osservò con sguardo sornione e la lasciò fare. Preso coraggio portò il gatto nel fienile, per riparalo dal freddo della notte e dai predatori notturni. Al mattino presto dopo aver preparato la colazione il babbo corse nel fienile per vedere di giorno quello che lei chiamavano gatass pitois, ma di lui non c’era più nessuna traccia tranne la ciotola dove aveva bevuto il latte. Passarono gli anni ed il padre ormai anziano faticava ad andare nel bosco a tagliare la legna, e lei lo aiutava come poteva e cercava di guadagnare qualcosa con un piccolo telaio in casa dove tesseva la canapa, ma erano anni grami infestati da guerre e carestie ed un bel giorno suo padre mori e lei rimase sola, con pochi soldi e quasi più niente da mangiare. Passò dei giorni a piangere poi disse tra se, se mio padre faceva il taglialegna potrò farlo anch’io, prese “la piola, l’accetta” e si inoltrò nel bosco, quando vide degli alberi: salici, ontani, carpini e delle querce inizio con fatica a tagliarle alla base un bel esemplare di carpino, e alla sera ne aveva abbattuto uno solo e presa dalla grande stanchezza si fermo un poco all’ombra di una grande quercia per prendere fiato e vinta dalla fatica si addormentò. Quando si svegliò per il richiamo del gufo, ormai era notte fonda e venne presa da paura incominciò a vagare ma nella notte scura non riusciva a trovare la strada di casa, e la volta celeste era coperta da una coltre di nubi e non poteva neanche orientarsi con le stelle. Presa da grande sconforto si chinò al margine di una maestosa farnia e sentì una voce strana alle sue spalle che gli diceva: “ tanti anni fa quando ero in difficoltà Tu mi hai aiutato ed ora io aiuto Te, dolce e graziosa ragazza!” Era il Gatass Pitois, che parlava e poi aggiunse: “ Seguimi che Ti riaccompagno a casa.” E così infatti avvenne. Appena arrivata a casa la ragazza, presa dalla gioia di essere a casa sana e salva, accese il camino e preparò una calda polenta e diede da mangiare al gatto quel poco di provviste che ancora aveva. Poi stanca e sfinita si addormentò. Al mattino il gatto era sparito ma dove era accoccolato dopo la cena la sera prima c’erano tre grossi scudi d’oro. La ragazza prese gli scudi, due li nascose e con il terzo andò a fare provviste, e alla sera il Gatass Pitois si ripresentò, gli venne offerta la cena ed al mattino trovò altre tre monete d’oro. Questa trafila continuò per anni e lei divenne ricchissima, si preparò una adeguata dote e sposò un nobile che la portò a vivere a Torino ed il gatass pitois, si dice che si aggiri ancora pronto a ricompensare gli atti di gentilezza fatti nei sui confronti. Questa è la storia del Gatass Pitois e della ragazza che anni prima lo aveva aiutato e lui riconoscente l’aveva resa ricca. In Francia, Inghilterra e Spagna si trovano leggende simili del gatto che arricchisce gli esseri umani e qui il gatto si chiama Matagot o Mandagot che in Francia meridionale, secondo alcune tradizioni orali, uno spirito sotto forma di un gatto e qui nei racconti sono generalmente malvagi, ma alcuni possono rivelarsi utili, come il “gatto mago” che può portare ricchezza in una casa se è ben nutrito. La leggenda inglese del gatto donatore di ricchezza precede quella francese di circa un secolo, e ha come protagonista nientemeno che Dick Whittington, Sindaco di Londra a inizio ‘400. Sembra che si sia elevato da orfano a eroe, e appunto Sindaco di Londra, grazie al suo gatto, che gli diede il primo spunto a migliorare il suo tenore di vita liberando un villaggio dai topi. Una storia che potrebbe essere in parte vera, data la presenza di un bassorilievo di pietra raffigurante un gatto e un ragazzo, ritrovato nella sua casa a Gloucester. Tradizionalmente, un matagot che porta ricchezza deve essere attirato con un pollo fresco e grassoccio, quindi portato a casa dal suo nuovo proprietario senza che l’essere umano si voltasse indietro. Se al gatto viene dato il primo boccone di cibo e bevande ad ogni pasto, ogni mattina ripagherà il suo proprietario con una moneta d’oro massiccio. Nelle tradizioni della Guascogna, non devi tenere il matagot per tutta la vita: se il proprietario sta morendo, subirà una lunga agonia, purché non liberi il matagot. Secondo alcuni la parola matagot deriva dal mata-gothos spagnolo, da matar, uccidere, e gothos, Goti. I Goti, sono tribù germaniche si stabilirono in Spagna, Francia meridionale e Italia e alla fine si convertirono al cristianesimo, quindi Goth significa “cristiano” in opposizione a Moro che significa “musulmano”. Quindi un matagot sarebbe uno spirito malvagio che uccide i cristiani. Nel film fantasy 2018 Animali fantastici: I crimini di Grindelwald, i matagoti sono rappresentati come enormi creature simili a un gatto nero che sorvegliano il Ministero della Magia francese e possono moltiplicarsi se attaccati, e poi si potrebbero citare lo Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie ed il Gatto con gli stivali.
Favria, 17.02.2020 Giorgio Cortese

Gli occhi di un gatto sono le finestre che mi permettono di vedere dentro un altro mondo.

Assediati!
Ci sentiamo assediati, ma la sicurezza non c’è! Ci chiudiamo nelle nostre case e la paura non passa. Dalle polis greche alle città di oggi, l’umanità che ha scelto di convivere coltivando illusioni della sicurezza, ed invece più progrediamo e più si vive nel senso dell’insicurezza. La città è lo specchio della nostra umana condizione dal momento che le città è l’uomo come sosteneva Aristotele. Il male è dentro di noi nella nostra natura umana, anche quando assume vesti non umane come la pestilenza o altre forme sterminio. Ecco perché c’è dentro di noi la diffidenza che istigata dai certi demagoghi si trasforma nella paura dello straniero, colui che viene fuori dalla città e nei cui confronti possiamo attivare l’ospitalità oppure la diffidenza e il rifiuto. Curioso che in latino la parola hostis significa sia nemico che ospite. Aveva ragione Sofocle che nell’Antigone afferma che molte meraviglie vi sono al mondo, ma la più tremenda coincide con l’essere umano! Siamo noi uomini a scatenare il conflitto intestino, la guerra! In filigrana, possiamo evidenziare una delle più grandi diatribe dell’antica Grecia, l’inquietudine dell’uomo greco di fronte a due grandi entità: il Kaos e il Kosmos, il disordine assoluto, che era in principio, come viene descritto nella Teogonia di Esiodo, e il Cosmo, cioè l’universo ordinato, bello, regolato, ricordiamo che kosmos, in greco, significa letteralmente ornamento, che scaturisce dopo la grande guerra di Zeus contro suo padre, Kronos. Ecco che la guerra civile, dentro la città come ad Atene nel 40 4 a.C., sotto il gioco dei Trenta tiranni imposti dalla vincitrice Sparta, uscita vittoriosa dalla guerra del Peloponneso, porta la durezza della guerra dentro le mura della città, della polis e risultarono propedeutiche alla restaurazione delle libere istituzioni. Insomma le città sono l’essenza delle nostre paure da quelle più antiche a quelle nuove.
Favria, 18.02.2019 Giorgio Cortese

La felicità non è ciò che devo sentire, la felicità è ciò che sono.

Il popolo che si fa servo
Nel 1540 scriveva Etienne de la Boetè che: “Il popolo che si fa servo, che si taglia la gola, che, potendo scegliere se essere servo o libero, abbandona la libertà e si sottomette al giogo.” Pagine molto attuali sul tema delle servitù, sull’affidarsi all’uomo forte, che promette grandi cose per il popolo e la nazione. Questo significa rinunciare alla libertà!
Favria, 19.02.2020 Giorgio Cortese

Il futuro arriva comunque e noi ogni giorno non abbiamo molte scelte, possiamo solo cercalo se no è il destino che cerca noi!

Il Ring degli Avari!
Gli Avari erano una popolazione nomade affine agli Unni. Nel 460 d.C. causa carestie migrarono verso il Mar Caspio. Vinti intorno al 550 dai Turchi-Altai, si spinsero ancor più a occidente e nel 558 chiesero a Giustiniano una regione per stabilirvisi. Combatterono con Unni e Slavi e in Turingia furono vinti nel 561 da Sigiberto, re d’Austrasia, che però in una seconda scorreria fu da loro vinto e catturato. Penetrarono in Pannonia, si allearono con i Longobardi e parteciparono alla distruzione del Regno dei Gepidi tra il 566-567 d.C. Dal 568 abitarono la puszta ungherese, dominando dalla Dalmazia alla Boemia, dalle Alpi orientali alla Transilvania. Gli Avari erano il terrore dell’Impero bizantino, arrivarono fin sotto le mura di Costantinopoli. Dopo l’irruzione di Serbi e Croati nei paesi balcanici, il loro Stato feudale, retto da un Khaqan, si ridimensionò per poi dissolversi sotto i colpi dei Carolingi. Gli Avari furono cavalieri eccellenti, introdussero in Europa l’uso della staffa e dell’arco riflesso, con maggior potenza di lancio. La ritualità funeraria contemplava spesso la sepoltura del cavallo accanto al cavaliere; quella del Khaqan era in un luogo isolato, mentre le tombe dei proprietari terrieri, spesso ricche di manufatti d’oro e gioiellerie, erano per lo più nei loro possedimenti. Un netto impoverimento della società avara si ebbe tra 7° e 8° sec., in corrispondenza della cosiddetta cultura del bronzo, che vide, a fronte della mancanza di metallo prezioso, oreficerie, fibbie e fibule bronzee e solo occasionalmente dorate o argentate. Questo fenomeno fu accompagnato dalla progressiva sedentarizzazione degli Avari in villaggi. Degli Avari era famoso il loro Ring, non quello del Signore degli Anelli, la parola in tedesco vuole dire anello, cerchio, circolo. Il Ring degli Avari era un immenso campo trincerato a forma circolare, costruito in Pannonia nel sec. 8°, composto di nove cerchie di mura concentriche, conteneva villaggi e campi nel 795 fu preso e distrutto da Carlo Magno, da quel momento ebbe inizio la decadenza degli Avari. Oggi il termine Ring si usa in urbanistica, famoso il Ring di Vienna, realizzato a partire dal 1857 con la chiusura dei fossati e la demolizione dei vecchi bastioni, intorno al quale vennero a disporsi i poli di maggiore attrazione della città, e in Germania, si adopera talora per indicare una grande arteria svolgentesi tutto intorno al nucleo centrale e antico di una città per raccogliere e smistare il traffico proveniente dai quartieri esterni a tale nucleo.
Favria, 20.02.2020 Giorgio Cortese

Nella vita la felicità è ciò che siamo, non ciò che abbiamo.

Quale è la nostra lingua madre?
Il 21 febbraio cade la Giornata Internazionale della Lingua Madre proclamata dall’UNESCO per promuovere la diversità linguistica e culturale e il multilinguismo. La data ricorda la tragedia avvenuta nel 1952 quando diversi studenti bengalesi dell’Università di Dacca rimasero uccisi mentre protestavano per il riconoscimento del bengalese come lingua ufficiale, allora parte del Pakistan. In un’epoca guidata dalla globalizzazione e dal multilinguismo il valore alla lingua madre appare forse meno chiaro. Oggi la lingua madre ha un valore sia individuale sia sociale, individuale perché, come dice il nome stesso, è la lingua che il bambino o la bambina sentono parlare dalla mamma, anzi sente ancor prima di nascere, quando nell’utero ne percepisce il ritmo e l’intonazione, e poi è la lingua che ognuno sviluppa spontaneamente nei primi anni di vita, dentro la famiglia, sino a raggiungere una competenza che gli permette di capire e di esprimersi senza sforzo. Il valore sociale è dato dalla ricchezza della diversità linguistica. Oggi nel mondo si contano circa 7000 lingue, ma purtroppo ogni due settimane una cessa di esistere e più del 50% è in pericolo. Oggi per comunicare è richiesto in molte situazioni la conoscenza di più di una lingua. Il multilinguismo non solo è conciliabile, ma addirittura è reso possibile dal mantenimento della lingua madre. Infatti è dimostrato che nessuna lingua può essere appresa pienamente se non poggia sulla solida competenza della lingua acquisita dalla nascita. Le lingue non sono palloncini, non si fanno concorrenza nel cervello dei bambini, sottraendosi reciprocamente spazio. Al contrario, mantenere la lingua madre nell’infanzia e affiancarle un’altra lingua fa sì che i bambini e le bambine bilingui godano di provati vantaggi cognitivi. In Italia abbiamo la ricchezza del dialetto che fino a cinquant’anni fa erano la lingua madre di molti parlanti, che apprendevano l’italiano a scuola. Oggi la situazione è assai diversa e i dialetti non sono mai l’unica lingua parlata in famiglia. Anche nelle aree dove i dialetti mantengono una forte vitalità, i parlanti sono bilingui, italiano-dialetto. Si è provato a creare una lingua unica l’esperanto nato da una idea di uguaglianza sociale, ma assai poco realistica. Sebbene oggi circa 1.600.000 persone in 120 paesi parlino questa lingua, la sua diffusione universale pare difficilmente realizzabile, anche a causa della sua natura linguistica totalmente pianificata, perciò priva di trasmissione familiare, pare infatti che solo poche centinaia di persone secondo studi la parlano come madrelingua. Parlando della nostra lingua madre, l’italiano, oggi secondo gli esperti assistiamo ad una rivoluzione di portata storica. Pensate che nei tre millenni di storia nota delle popolazioni che hanno abitato questo Paese che oggi chiamiamo Italia da duemila anni mai vi era stato un pari grado di convergenza verso una stessa lingua. Quello che Foscolo, Cattaneo, Manzoni avevano sognato, che l’italiano un giorno diventasse davvero la lingua comune degli italiani, è oggi una realtà nell’Italia della Repubblica democratica. Quello che è straordinario è che, sempre secondo studi recenti quasi tutti gli scrittori africani e magrebini, che vivevano in Paesi già dominati dalla Francia, soprattutto culturalmente, adottavano la lingua di Sartre e di Camus, di Apollinaire e Valéry ed oggi scelgono l’italiano perché malgrado l’aspra concorrenza dell’inglese è ancora una lingua ricca, leggera, complessa, nobile, musicale. Oggi che parliamo di lingua madre, questo è il paradosso del nostro tempo, dell’italiano nato come lingua scritta, sta sopravvivendo principalmente come lingua parlata. Nell’Italico Stivale si è in qualche modo unificato il parlare di noi italiani, ma si frammenta la lingua scritta per una pluralità di ragioni, l’ingressodi parole straniere, lo strano italiano che scrivono oggi i giovanissimi che hanno trasformato in lingua in sms e le comunicazioni in rete ed allora evviva l’italiano fattore portante dell’identità nazionale.
Favria, 21.02.2020 Giorgio Cortese

Penso che ci è stata data la lingua per parlare, ma anche i denti per tenere a volte la bocca chiusa, ma con le mani scrivo!

Cantare!
Tempo addietro ho detto che i cori alpini non erano solo cori da osteria e chiedo pubblicamente scusa alle persone che si sono risentite di tale asserzione. La mia non voleva essere una affermazione denigratoria verso i cori da osteria Cantare insieme, affidare alla voce le proprie emozioni, nel chiuso delle pareti di un luogo familiare, di un ritrovo rassicurante con in una osteria è un patrimonio culturale prezioso che va invece salvaguardato e tramandato, consentendo di riscoprire nella sua ricchezza questa peculiare modalità espressiva della civiltà contadina, le nostre comuni radici; intonare cori che dicono d’amore, di nostalgia o di semplici felicità quotidiane, o che si fanno strumento di sfottò beffardi, o che ancora sanno rivelare a sorpresa, tra le pieghe, una vena sottile di irritazione. Il canto da osteria è una forma di cultura tutt’altro che trascurabile ma che purtroppo, come spesso accade, si sta lentamente perdendo. Come esseri umani cantiamo quando le parole non bastano, quando non riusciamo ad esprimere le nostre emozioni, forse perché da sole sarebbero persino ridicole
Favria, 22.02.2020 Giorgio Cortese

Vincere è bellissimo se si riesce anche ad aiutare e rispettare gli altri. Ma chi calpesta il prossimo mentre sale in cima e una volta arrivato tratta male gli altri, secondo me perde la propria umanità

Collerico!
Conosco una persona che ho sopranominato Collerico, una persona sempre di umore nero. Mi viene voglia di dirle ma fermati e pensa che la vita è bella e sorridi! Secondo la medicina ippocratica, l’abbondanza di bile gialla, uno dei quattro fluidi fondamentali del corpo umano, caratterizzava la persona dal temperamento come collerico che tende ad agire senza riflettere, reagendo in maniera impetuosa anche ad un saluto che può interpretarlo come una grande offesa. Caro signor Collerico le Tue reazioni non sono nè di testa né di cuore, ma di pancia. Dicono che la collera è davvero connessa alla sfera emotiva, mi sono reso conto nei rari incroci con Te che sei sempre verde dalla rabbia e con l’amaro in bocca e vivi male. Caro signor Collerico, sappi che se continui così stai solo male Tu e non concludi nulla, liberati dal rancore. Sappi signor Collerico che la malattia del colera, in quanto grave infezione intestinale, etimologicamente nasce dalla medesima radice, anticamente si credeva che gli squilibri addominali fossero effetto di squilibri biliari. Rilassati signor Collerico che c’è Dio ma non sei Tu e che troppa rabbia e astio portano anche dolorosi attacchi di diarrea. Ti consiglio quando vieni preso da uno dei Tuoi attacchi di collera di contare fino a dieci e poi sorridere!
Favria, 23.02.2020 Giorgio Cortese

l più grande rischio nella vita quotidiana è non prendersi nessun rischio

Verità su Regeni!
A Roma in via Salaria, sul muro che circonda Villa Ada, a pochi passi dell’Ambasciata d’Egitto, è apparsa l’ultima opera della Street Artist Laika che ritrae Giulio Regeni che abbraccia lo studente arrestato in Egitto Zaki, con indosso una divisa da carcerato. Davanti alle due figure campeggia la parola “Libertà” scritta in lingua araba. Nell’opera, Regeni rassicura Zaki, dicendogli: “Stavolta andrà tutto bene”. Questa frase ha un doppio significato, serve a rassicurare Patrick, ma soprattutto a mettere davanti alle proprie responsabilità il governo egiziano e la comunità internazionale. Non si può permettere che quanto accaduto a Giulio Regeni e a troppi altri, avvenga di nuovo. Secondo fonti Amnesty International in Egitto ci sono documentati 112 casi di sparizione forzata per periodi fino a 183 giorni, prevalentemente per responsabilità dell’Agenzia per la sicurezza nazionale. Se ci consideriamo un Paese civile e veramente democratico dobbiamo capire se la nostra priorità sono gli esseri umani ed il loro rispetto o continuare a fare affari economici con regimi autocrati e dittatoriali, perché il fascismo oggi è questo! Voi che mi leggete da che parte state? Personalmente io sono dalla parte di chi vuole la VERITA! E Voi?
Favria 24.02.2020 Giorgio Cortese

Essere felici significa vivere e godere i desideri del cuore.
giorgio