Est modus in rebus!. – La rabbia ed il rancore. – Tradire la verità o l’amicizia – La battaglia delle Dune. – Il pas d’armes. – Le sorbole del sorbo. – L’emozione allo stato puro…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Nella vita quotidiana, da soli possiamo fare così poco, ma insieme possiamo fare tanto.
Est modus in rebus!
Oggigiorno viviamo con una èlite, una ristretta cerchia di persone che si pensano autorevoli solo perchè hanno l’autorità ma nessuna saggezza da trasmettere a noi comuni cittadini. Questa èlite ogni giorno ci viene propinata tramite i mass media, e sono i soliti noti, dalla politica all’economia, dallo spettacolo e dallo sport. Ma non sono loro che mandano avanti il BelPaese. Quello che manda avanti la baracca in ogni ambito non ha titoli sui giornali. Vorrei dire grazie alla gente, alla nostra gente, che ogni giorno fa fatica, sgobba e suda, tira il carretto, si moltiplica nei sacrifici per rimanere onesta, quelle persone che pagano puntualmente le tasse anche a costo di tirare la cinghia e che non hanno mai nessun riconoscimento. Vorrei per una volta invece di rampognare i furbetti e gli scaltri elogiare i buoni cittadini e dire un grazie di cuore per quelli che con onestà si prodigano a salvare in mare ed accogliere i migranti dando una solidarietà concreta senza specularci sopra. Vorrei elogiare quella grande, e meno male, fetta della nostra società che in silenzio e compostezza tira la cinghia ma con senso del dovere va avanti anche a costo di grandi rinunce. Questi buoni cittadini sono l’architrave portante della nostra società e delle nostre Comunità, che purtroppo ogni giono perdono terreno economico, scivolando sempre di più verso la povertà, e molti di loro con dignità ed in silenzio fanno la fila per un pasto caldo, dove lo Stato sembra diventato patrigno per i suoi cittadini e buonista per tutti quelli che ne varcano i confini anche senza averne titolo. Se non si danno delle risposte ferme dove l’ospitalità viene ricambiata con violenza, ed accoglienza solo per chi richiede lo status di rifugiato politico rischiamo di fare diventare gli italiani che non sono mai stati razzisti in xenofobi. Aveva ragione il poeta latino Orazio che: “ Est modus in rebus”, di essere sempre moderati condannando l’eccesso dell’accoglienza a tutti che porta su una cattiva strada. La sentenza oraziana prosegue con “sunt certi denique fines,” cioè esistono dei limiti oltrre i quali è sconveniente andare perché si abbandona la via giusta. Una regola che le attuali èlites dovrebbero darsi anche nel dibattito nazionale, perché tutto ciò che oltreepassa la misura è equilibrio instabile e può portare alla rovina.
Favria, 16.01.2018 Giorgio Cortese

Non ci sono regole per vivere nella maniera giusta. Ogni cosa deve nascere nel cuore come un colpo di vento improvviso.

La rabbia ed il rancore.
La rabbia e il rancore mi creano ostacoli nel quotidiano cammino. La rabbia e il rancore se covano nell’animo mi bruciano l’aria che respiro, mi rovinano la vita e divorano i miei pensieri, c’è voluto del tempo ma adesso l’ho capito. La rabbia ed il racore sono subdoli e cercano di trasformarmi in quello che non sono. La rabbia, come la crescita umana arriva a scatti e a strappi., e poi mi accorgo di averla superata ed il mio animo è simile al risveglio nel nuovo giorno, calmo e rilassato.
Favria,. 17.01.2018 Giorgio Cortese

Nella vita quotidiana il vincente guarda a ciò che ha realizzato nella giornata, il perdente si lamenta di cosa non è riuscito a fare

Tradire la verità o l’amicizia
La verità non l’amicizia. Lo scriveva già Aristotele che diceva “diceva meglio “non tener conto gli affetti personali quando si tratta della salvezza la verità”. Ne consegue che o ci sono cari gli amico oppure la verità. Ma con il gesto con il quale tradisco, la fedeltà di un amico, confermo si la verità ma tradisco un rapporto umano importante. Insomma nella vita possiamo essere tutti traditori se difendiamo la verità a discapito delle amicizie o le amicizie a danno della verità?
Favria,18.01.2018 Giorgio Cortese
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Il calcio come la vita è semplice, ma il difficile giocare e viver ein modo semplice.

La battaglia delle Dune
La battaglia detta delle Dune detta anche battaglia di di Dunkerque fu combattuta il 14 giugno 1658 e vinta dai Francesi comandati da Turenne sugli Spagnoli, condotti da Don Giovanni d’Austria. Militavano sotto gli ordini del Turenne anche un contingente di seimila Inglesi, inviati da Cromwell. Dalla parte spagnola i frondisti francesi col gran Condé e un corpo di Anglo-Irlandesi, partigiani degli Stuart, condotti dal duca di York. All’ala destra dell’armata del Turenne la vittoria arrise subito all’impeto travolgente degl’Inglesi, abilmente secondato dalla cavalleria francese. Il contingente di truppe inglesi, le cosiddette Giubbe Rosse del Nuovo modello di esercito di Cromwell, al comando di William Lockhart, ambasciatore di Cromwell in Parigi, assistito dal maggior generale Morgan, si distinsero particolarmente nella battaglia per la loro grande audacia nell’attaccare, che si mostrò, fra l’altro, nella determinazione d’attacco fino alla conquista di dune fortificate alte 50 metri. Ma all’ala sinistra, contro la quale combatteva il gran Condé, la battaglia l’esito rimase a lungo incerto e solo dopo varie vicende, fu vinta dalle truppe del Turenne. Il corpo dei frondisti francesi, che stava sull’ala sinistra dello schieramento spagnolo, poté ritirarsi in buon ordine. Anche quello dei realisti inglesi, detti i Cavalier, che combatterono dalla parte degli spagnoli, poterono lasciare il campo di battaglia in qualche modo senza danni, poiché le truppe inglesi che combattevano a fianco di quelle francesi, detti Roundheads, si erano intesi con i connazionali per non versar sangue inglese su un campo di battaglia in terra straniera. La battaglia durò circa due ore, poi le truppe spagnole si dovettero ritirare. Le perdite spagnole ammontarono a circa 6.000 uomini, fra morti, feriti gravi e prigionieri, mentre quelle degli alleati anglo-francesi non superarono i 500 in tutto, ma tra esse si dovette annoverare quella dell’eroico generale Castelnau-Mauvissière. L’’esito di questa battaglia segnò anche il destino della città di Dunkerque, che si consegnò alle truppe francesi il 14 giugno. Subito dopo il cardinale Mazarino onorò il patto con Cromwell, consegnando la città portuale agli ingles. Questa sconfitta delle truppe spagnole fece anche comprendere a Filippo IV di Spagna che non avrebbe potuto difendere a lungo i suoi possedimenti nelle Fiandre se non avesse concluso la pace con Luigi XIV. Un anno dopo, il 7 novembre del 1659, fu conclusa la èace dei Pirenei, che pose fine alla guerra franco spagnola.
Come si vede non esiste solo la battaglia di Dunkerque combattauta fine maggio inizio giugno del 1940.
Favria 19.01.2017 Giorgio Cortese

Molte volte la semplicità è la cosa più facile da non capire.

Il pas d’armes
Recentemente ho letto in un libro questa singolare sfida di carattere individuale o collettivo. Il pas d’armes fu uno dei grandi spettacoli cavallereschi medievali e attirava tantissimo pubblico un poì come adesso gli eventi sportivi. Il pas d’armes si rifaceva al duello giudiziario per questioni d’onore. Uno dei più importanti duelli fu quelli che si svolse a Digione a metà del XV secolo dove. I parteciparono cavalieri provenienti da tutta l’Europa Cristiana .La specificità di questo nuovo tipo di confronto è la sua dimensione teatrale e come era organizzata secondo un preciso regolamento. Era insomma una situazione di finta guerra, un gioco dove prevalevano i cavalieri migliori. Lo scopo era la difesa di un passaggio nei confronti di chi accetta la sfida. Questo passaggio, ricavato in maniera artificiale poetava essere un ponto o un incrocio, ed il cavaliero lo difendeva da solo. Il gioco d’arme iniziava quando uno o più sfidanti detti “tenans” sceglievano il sito detto ” il pas” che dicevano difendere a tutti i costi contro i “venans” cioè i cavalieri intenzionati a passare. A quel punto il tenan pronunciava i voti, per esempio quello di digiunare fino alla sconfitta del nemico ed elencava per iscritto le condizioni da soddisfare per poter passare. Nel duello di Digione, tredici cavalieri borgognoni riuscirono a tenere pas d’armes pare per circa 40 giorni . Qui viene menzionato il cavaliere Jacques de Lalaing, in un periodo dove le virtù della cavalleria erano ormai giunte al loro malinconico crepuscolo. Alle imprese di questo imbattibile fuoriclasse del duello all’arma bianca è dedicato il Livre des faits du bon chevalier Jacques de Lalaing, un volume scritto dal più celebre cronista della corte borgognona, Jean Le Fèvre de Saint-Remy. il cavaliere Jacques de Lalaing era nato nel 1421 da una nobile famiglia dell’Hainaut, Jacques, secondo l’uso del tempo in Borgogna, ricevette una raffinata educazione umanistica e letteraria, ma fin da bambino manifestava una spiccata predilezione per lo sport, addestrandosi alle arti marziali sotto i migliori istruttori del ducato e sfoggiando ancora ragazzo doti di ardimento e sprezzo del pericolo tanto eccezionali da attirare l’attenzione di Filippo il Buono, che lo prende al suo servizio e lo nomina cavaliere. Dopo essersi distinto il 22 novembre 1443 nell’assalto portato dalle truppe di Filippo il Buono alla città di Lussemburgo, due anni dopo partecipa, battendo tutti i concorrenti, al più importante torneo dell’epoca, organizzato a Nancy con la partecipazione di equipaggi inviati dal re di Francia Carlo VII, da Alfonso V d’Aragona e dalle principali famiglie aristocratiche francesi. Da questo momento la sua escalation ai vertici della “cavalleria” è inarrestabile. Ma il destino è in agguato. Il 3 luglio del 1453, mentre combatte al fianco di Filippo il Buono per sedare la rivolta di Gand, Jacques de Lalaing viene colpito da una palla di cannone durante l’assedio del castello di Poeke e muore sul colpo, e con Lui finesce l’epoca del valore del guerriero e inizia la forza delle armi da fuoco che posso essere utilizzate anche da persone con meno coraggio e addestramento.
Favria, 20.01.2018 Giorgi9o Cortese

Nella vita quotidiana certe scoperte appaiono semplicissime dopo che sono state fatte.

Le sorbole del sorbo.
Il sorbo, una pianta con i suoi frutti che sembra dimenticato, coltivato sia come albero ornamentale che come albero da frutto, questo albero è originario dell´Europa meridionale e anche in Italia lo si può trovare allo stato selvatico. Oggi è incredibilmente poco usato nei giardini, nonostante sia una pianta molto bella, che fa fiori e frutti decorativi ed ha foglie aggraziate che in autunno si colorano di calde sfumature giallo dorate, ramate e rosa. Inoltre resiste bene alla siccità e al caldo. Le testimonianze dell’uso del sorbo sono molto antiche, già nel 400 a.C. in Grecia si trovano tracce della sua coltivazione e poi i Romani lo fecero conoscere al resto dell’Europa. Virgilio, nelle Georgiche, narrando di popolazioni che vivevano nell’Europa dell’Est, a nord del Mar Nero, racconta che dopo le caccie al cervo nella neve si riunivano in grotte dove accendevano grandi fuochi e “…trascorrono la notte nel gioco, e allegri imitano la bevanda delle vigne con quelle di orzo fermentato e acide sorbe”. L’etimologia del latino sorbus è incerta: secondo alcuni deriverebbe dal verbo sorbeo, bere, assorbire, in quanto i frutti del sorbo arrestano i flussi dell’intestino. Di questo avviso terapeutico del sorbo erano Dioscoride e Galeno. Tuttavia, pare assai più verosimile un’etimologia indoeuropea, dal colore di frutti, “sor-bho” rosse, le sorbole. Nelle leggende europee il sorbo è una pianta molto importante, che protegge chi ne possiede un esemplare ed anche chi, semplicemente, decide di appenderne una fascina o una ghirlanda alla porta, scacciando in questo modo gli spiriti maligni. dice un antico proverbio: “sorbo selvatico e filo rosso fan correr le streghe a più non posso”. Anticamente nella costruzione delle zangole si usava legno di sorbo per essere sicuri che fate e streghe non sorvegliassero il burro. Esso occupava un posto speciale negli oracoli dei druidi, impiegavano fuochi del suo legno per evocare spiriti che poi obbligavano a rispondere alle domande sparpagliando bacche di sorbo su pelli di toro appena scuoiati. Era conosciuta anche una forma di divinazione che interpretava il significato di rametti rovesciati su una pelle di toro ben tesa, da cui il detto irlandese “camminare sui rami della conoscenza” per significare che si è tentato il possibile per ottenere un’informazione. Nel calendario dei Celti il Sorbo dava il nome al mese che andava dal 21 Gennaio al 17 Febbraio e che in gallese era chiamato “Cerdinene” oppure “Luis” in irlandese. I Celti lo consideravano l’albero dell’Aurora dell’anno, in cui cadeva la “festa del latte” Imbolc, poiché la celebrazione coincide con il primo fiorire del latte nelle mammelle delle pecore, circa un mese prima della stagione della nascita degli agnelli. Questo sottile segnale di ritorno della fertilità era il primo di una serie di eventi che annunciavano il rifiorire della vita sulla terra e, per la tribù, segnava l’urgenza di cominciare un nuovo ciclo di attività. Questa è la festa più intima e raccolta dell’intero anno sacro: all’interno delle palizzate che circondano il villaggio, chiusi nelle capanne coperte di neve, raccolti intorno al fuoco caldo e crepitante, i Celti ascoltavano le storie del proprio clan, rendevano omaggio alla Dea e si preparavano al risveglio del mondo. Tornando al nostro sorbo va detto che Celti Germani lo univano alla mela come nutrimento per gli dei e secondo i Finni era l’albero della vita ed ospitava la ninfa Pihlajatar. In rapporto con le potenze invisibili, il sorbo poteva anche proteggere efficacemente da quelle malvagie e quindi era usato come amuleto contro i fulmini ed i sortilegi. Nel romanzo irlandese “La razzia della mandria di Fraoch” le bacche di un sorbo magico, custodite da un drago, hanno la virtù nutritiva di nove pasti, risanano le ferite ed aggiungono un anno alla vita d’un uomo. Nell’antica Irlanda prima di combattere i druidi accendevano fuochi con legno di sorbo, appunto ed invitavano così gli antichi spiriti del gruppo a prendere parte alla battaglia. Col suo legno si scolpiva una piccola mano, detta di strega, che serviva a scoprire i metalli nascosti sotto terra, ma anche manici di fruste, atte a dominare persino i cavalli stregati, e bastoni da pastori, che proteggevano il bestiame anche dalle epidemie. Un pezzetto di legno di Sorbo, tenuto in tasca, era ottimo talismano per proteggersi dai fulmini e dai sortilegi. I marinai attaccavano dei blocchi del suo legno sulla chiglia della nave perché li difendesse dalla furia delle tempeste marine. I suoi frutti dolci e leggermente astringenti un tempo si mangiavano, si mescolavano alla pasta del pane, se ne ricavava una salsa da accompagnare alla selvaggina e servivano anche a preparare una bevanda a bassa fermentazione, simile al sidro, che in Europa centrale si produce ancora adesso. I Romani la chiamavano “cerevisia”. I frutti del sorbo, le sorbole aono anche una tipica esclamazione dialettale bolognese, che sta ad indicare stupore, meraviglia, sorpresa. I frutti del sorbo sono commestibili anche se sulla pianta sono aspri, astringenti e duri, per poter essere mangiati è necessario che siano maturati molto fino a divenire morbidi, oppure che subiscano l’effetto del gelo, di qui il proverbio “ col tempo e con la paglia maturano le sorbe e la canaglia”, per dire che si deve lasciare tempo al tempo, che spesso è necessario e opportuno pazientare e attendere.
Favria, 21.01.2018 Giorgio Cortese
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È strano. Proprio quando penso di essere andato il più lontano possibile, scopro che posso spingermi ancora oltre

L’emozione allo stato puro.
Ho recentemente letto il libro: “I ragazzi di Barrow” di Fergus Fleming. Nel 1804, quando John Barrow ascende al soglio di secondo segretario dell’Ammiragliato britannico, sulle carte dei di lì a poco sudditi di Vittoria spicca ancora un numero allarmante di zone bianche. Alcune, l’Australia, e anche l’Antartide, per il momento potevano rimanere tali, ma in altre si annidavano enigmi da sciogliere quanto prima, data l’importanza strategica loro attribuita. Ad esempio il vero corso del Niger o l’esistenza o meno di un Passaggio a nordovest. Su entrambi Barrow aveva idee spesso sbagliate, ma comunque chiare, ma soprattutto, la possibilità di realizzarle. Quindi, muovendosi dalla scrivania così di rado che in occasione del congedo i superiori, convinti che non potesse separarsene, gliene fecero dono, Barrow trascorse i quarant’anni del suo regno a montare un impressionante numero di spedizioni verso il Polo o l’Equatore. Difficilmente quelle avventure scampavano al disastro, al grottesco, o a una miscela variabile di entrambi. Eppure, ognuna contribuì alla maggior gloria del loro mandante, a tempo perso consulente del più importante editore inglese di viaggi, John Murray, quindi censore alquanto arcigno e non del tutto spassionato dei resoconti con cui i suoi ragazzi, portata a casa la pelle, speravano di arrotondare una paga piuttosto misera. La lunga, entusiasmante, divertentissima storia di caratteri leggendari come Parry, Ross e Franklin, dei loro sogni, delle loro imprese, della loro follia , è stata sempre raccontata come un’epopea. Barrow seppe seppe sfruttare un momento in cui la Gran Bretagna aveva una flotta navale immensa ma, in quel raro tempo di pace dopo le guerre napoleoniche, perlopiù inutilizzata. Quale migliore situazione per dare sfogo alle proprie fantasie e velleità geografiche. In questo libro di Fleming si legge avventura allo stato puro. Insomma un concentrato delle esplorazioni inglesi dell’800 alla ricerca del passaggio a Nord Ovest e non solo. Un libro splendido, scritto in maniera esemplare, scorrevole e divertente che non si limita a semplici descrizioni di fatti e si addentra, per quanto possibilie visto che si parla del 1800, nei caratteri dei personaggi. Quello che mi ha colpito è la superficialità con cui venivano mandati allo sbando intrepidi e curiosi avventurieri.
Favria, 22.01.2018 Giorgio Cortese

Mi domando perché certe persone hanno la prerogativa di complicare la semplicità?
Giorgio Cortese
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