Dal condurre una bestia al manager!. – Il coraggio!. – Fiancheggiare l’ ingombrante. – Digenis Akrites.- Sangue blu. – Da Bisanzio ad Istanbul, le peripezie del toponimo. – L’uncino con la leggerezza della destrezza e agilità. – Il giglio bianco…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Dal condurre una bestia al manager!
Un cliente mi ha detto che il suo vicino è un manager di una grande azienda multinazionale. Questa persona non conosceva il significato della parola e per aiutarlo ho cercato con lui in un dizionario, dove ho letto che l’attività del manager, viene svolta soprattutto come direzione di una società, di un’impresa commerciale o industriale, volta al conseguimento del massimo profitto. Ecco allora che la parola “Profitto” viene associato l’anglicismo manager come “uomo d’affari. Ma dove arriva questa parola che molte volte viene usata solo per riempirsi la bocca e per darsi l’importanza di una cornacchia con le piume del pavone, come nella favola di Fedro. Il sostantivo inglese manager deriva dal verbo francese manager, derivato a sua volta all’espressione latina manu agere, “condurre con la mano”, “guidare una bestia stando davanti a lei”. Talvolta come sinonimo di manager si usa anche il termine inglese executive, che si riferisce più propriamente ai manager di livello più elevato, quelli che compongono il cosiddetto senior management. Col tempo da manu agere si è passati a manàgere e da qui al verbo franco, e poi francese manager e al sostantivo anglosassone manager. Certo il significato si è modificato, ma non eccessivamente, infatti il manager i veri manager sono coloro che conducono gli altri. A seguire è venuto il termine management, che in Italia tendiamo a pronunciarlo con l’accento sulla seconda sillaba, in contrasto con la corretta pronuncia inglese che fa cadere l’accento sulla prima. Come si vede Il significato si è modificato, ma non eccessivamente, infatti, manager significa tuttora ‘colui che conduce gli altri’. A seguire, è venuto il termine management. Maneggiare significare toccare e trattare con le mani. Maneggiare i cavalli significava condurli. Castiglione parlava di maneggiar l’arme nel suo famoso Cortigiano. Purtroppo il maneggione in senso spregiativo anche chi maneggia affari o traffici in modo astuto o intrigante solo per personale interesse. Questa parola, insomma, dal latino passa per il francese antico e inizia un bel viaggio in Europa e man mano che procede acquisisce e perde nel tempo per strada dei significati, come ingenuità, moderazione, indulgenza. Alla fine si impone il senso di “dirigere, curare gli interessi di qualcuno”. Come si vede le definizioni non spiegano nulla. Sono importanti perché fissano i confini di una lingua. Ciò che importa però che siano usate correttamente perché chiunque può parlare e vantarsi con le parole, ma ci vogliono i fatti per brillare davvero.
Favria, 20.05.2017 Giorgio Cortese

Nella vita a chi chiede del perché dell’Eternità, Dio risponde con il suo ineffabile profumo d’amore

Il coraggio!
Il coraggio è un sentimento personale e soggettivo e nei primi libri che ho letto da ragazzo lo trovavo come virtù virile nel campo di battaglia. Ma che cosa è il coraggio se non la forza del cuore come il suo etimo latino coraticum che deriva da cor cuore e da lì l’antico francese corage per poi passare al provenzale coratge, la forza dell’animo nel sopportare con serenità e rassegnazione dolori fisici o morali, nell’affrontare con decisione un pericolo un rischio o un sacrificio. Il coraggio è l’attimo della vita in cui nell’animo sfolgora la libertà di scegliere e di agire seguendo la strada del sacrificio e delle avversità e che i vili opterebbero per viltà ed inerzia nella vita. Conosco delle persone che hanno paura del nuovo, del diverso, dell’inatteso. Quando si accorgono che stanno per cambiare le cose, che si profila un nuovo problema entrano in ansia e preferiscono non pensarci, chiudere gli occhi. Ci pensano e ci ripensano, ma finiscono per spaventarsi ancora di più e, anziché studiare come risolvere il problema, alla fine si tirano indietro e trovano il modo di evitarlo. Rimandano, prendono tempo, disdicono gli appuntamenti, di fatto rinunciano a lottare. Queste persone finiscono per vivere bene solo nell’orbita delle loro abitudini, fra le persone note facendo il solito lavoro. Alcune temono perfino l’arrivo di un nuovo giorno e si alzano malvolentieri la mattina, resterebbero a letto a lungo. Ma la vita quotidiana non è un percorso in pianura bensì un cammino pieno di saliscendi, personalmente costituito più da salite e da pochi falsipiani e pieno di situazioni critiche in cui devo fare delle scelte decisive e cercare sempre di cogliere in ogni circostanza il lato positivo anche in situazioni negative. Insomma calza molto bene il detto evangelico di essere: “… candidi come colombe e astuti come serpenti”. Ritengo che il coraggio è anche la positività di non perdere mai la speranza. Il coraggio è la virtù del cominciamento, del ripartire sempre anche quando cado, sempre, perché nulla resta mai identico e posso perciò sempre contare su una breccia, un soccorso, uno stimolo che mi dia l’energia per ricominciare. Il coraggio nella vita quotidiana è anche quello della verità e dell’essere capace di dire di no e del non accettare la società così come è ma di lavorare per cambiarla, per rederla più giusta. Ritengo che il trasgredire sia una una necessità storica altrimenti siamo simili a carnefici nazisti che portarono a propria discolpa l’obbedienza agli ordini. Nella vita a volte la mancanza di coraggio è il rischio di non rischiare. Nella nella vita quale portento fa una bandiera garrire al vento? Il coraggio! Chi rende ardita l’umile ad alzare la testa? Il coraggio! Messo alla prova dal destino, ecco che esce il coraggio, che poi non serve solo sui campi di battaglia come letto nei libri di storia. Nella vita anche se posso essere considerato un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro come diceva Don Abbondio nei Promessi Sposi, ho sempre il coraggio di scegliere costi quello che costi. Si coraggio da non confondere con l’incoscienza, rappresenta il primo passo verso il rinnovamento di me stesso e della società. Riflettete solo un momento, tutte le azioni, incluse quelle all’apparenza più banali, richiedono coraggio. E allora…Buona vita a tutti e coraggio!
Favria 21.05.2017 Giorgio Cortese

Certe volte la soluzione migliore e vincente è quella avere pazienza, anche nei casi in cui potrebbe non sembrare.

Fiancheggiare l’ ingombrante
Queste due parole sono entrambe di origine francese e per spiegare il titolo di questa breve riflessione esamino la prima parola fiancheggiare che significa stare a fianco di qualcosa o qualcuno oppure spalleggiare, aiutare, sostenere qualcuno. Il lemma deriva da fianco, che è a sua volta deriva dall’antico francese flanc, dalla voce franca non attestata per iscritto hlanka. Ecco il verbo fiancheggiare ha sia un significato concreto e uno figurato, e quest’ultimo riserva delle sorprese. L’immagine da cui nasce è molto semplice: uno stare al fianco. Così la siepe può fiancheggiare la strada, la fila per entrare al cinema fiancheggia l’intero edificio. Ma questa parola è la riproduzione c della posizione di chi mi sta a fianco è una posizione d’aiuto, di supporto. Nel linguaggio militare il fiancheggiare è riferito a fortificazioni o reparti che proteggono i fianchi di altri. Curiosamente, però, nel suo senso figurato questo verbo è molto spesso usato con un significato negativo: la figura del fiancheggiatore ha dei connotati decisamente torbidi. Così il fiancheggiare diventa anche e sovente il sostenere qualcuno in qualche attività illecita o biasimevole, l’esserne complice come il boss mafioso è fiancheggiato da personaggi non sospetto, certi personaggi controversi sono fiancheggiati da una nutrito miscuglio di suoi simili. E passo alla seconda parola della breve frase sopra indicata , ingombrante dal significato che ha grandi dimensioni ed è d’intralcio per la sua invadenza e a volte pesantezza. Questa parola deriva anche lei dal francese e precisamente dal francese antico encombrer, derivato di combre barriera, di origine celtica. Ma le grandi dimensioni dell’ingombrante non vivono soltanto in una dimensione volumetrica, ma sono anche in un’ottica funzionale. L’ingombrante non è ingombrante solo perché è grosso, ma perché è d’impaccio, d’ostacolo. Anzi le grandi dimensioni, per questo aggettivo, sono un carattere secondario: l’origine francese me lo presenta proprio col profilo di una barriera, in particolare, dello sbarramento posto sul fiume con tronchi d’albero. Un’immagine suggestiva, che proietta una luce chiara su questa parola. Questo termine si estende facilmente così a descrivere l’invadente, quelle persone che per la loro sciatteria morale mi mettono a disagio. Insomma sono pesanti ed hanno pensieri così piatti da non arrivargli neppure alla testa. Per loro un grammo di immagine val più di un chilo di fatti e non provano neanche a immaginare quale tesoro giace addormentato dentro di loro.
Favria 22.05.2017 Giorgio Cortese

Anche nelle piccole cose occorre molta attenzione, perché c’è sempre quella goccia che può far traboccare il vaso della pazienza. C’è un limite a tutto!.

Digenis Akrites
Digenis Akrites, un uomo di frontiera dei tempi antichi. Personaggio principale di una famosissima epopea bizantino, semi sconosciuta in Italia. Akrites significa soldato di frontiera nell’esercito bizantino di allora ed è l’esempio del vivere agli estremi confini della vita e del mondo con avventure fantastiche, un guerriero semi regolare al soldo dell’imperatore e incaricato di difendere le marche o temi bizantini disposti lungo il mobile confine con gli arabi mussulmani. Il poema epico, in realtà, ha notevoli risvolti psicologici sia nei confronti della dura vita che questi uomini compivano, perennemente nel deserto, sempre sottoposti a pericoli ignoti e inevitabili, sia nei confronti di una vita continuamente sotto pressione e priva di ogni senso di appartenenza presso una società che non è la loro, pur avendoli “prodotti”, ma che di loro ha assoluta necessità. Come non pensare a risvolti odierni. I giovani e la società contemporanea, una società che produce, educa e che spesso, troppo spesso allontana, rifiuta o peggio ingoia come il Lucifero di Dante
Favria, 23.05.2017 Giorgio Cortese

Cerco sempre di lavorare per lasciare questo mondo un po’ migliore di quanto non l’avevo trovato, giorno per giorno nei piccoli gesti quotidiani

Sangue blu
L’espressione “avere il sangue blu” viene comunemente utilizzata per indicare persone di nobili origini e tale credenza sembra avere diverse origini non del tutto accreditate. Secondo alcuni una prima ipotesi fa riferimento al fatto che i nobili fossero soliti rimanere all’interno dei loro possedimenti, senza esporsi al sole a differenza dei contadini, soldati e mercanti e la loro carnagione quindi era talmente chiara da lasciare intravedere le vene, di colore bluastro. Secondo altri, la credenza del sangue blu è legata all’ emofilia, una malattia ereditaria molto diffusa tra la nobiltà europea dei secoli scorsi, aggravata ulteriormente dai frequenti matrimonio tra consanguinei. L’emofilia determina un difetto nella coagulazione del sangue, favorendo emorragie, provocando lividi e gonfiori bluastri. La carnagione esageratamente pallida dei nobili ha favorito la diffusione di questo soprannome. Insomma il sangue non è acqua ma il mio timore è talvolta anche il mio sangue che pulsa silenzioso nelle arterie non colga le piccole bellezze della vita e conduca il mio animo a perdersi i in stanze lontane dal buonsenso.
Favria, 24.05.2017 Giorgio Cortese

Nella vita di ogni giorno quando sono nel dubbio, bisbiglio con il mio animo, quando sei nei guai, chiedo aiuto ma se devo decidere, rifletto

Da Bisanzio ad Istanbul, le peripezie del toponimo
Secondo una simpatica storiella, il nome attuale deriverebbe da una circostanza curiosa di quando i turchi alla conquista dell’Anatolia chiedevano ai greci dove fosse “la città” ricevevano come risposta, senza capirne il significato Isten polis, cioè “quella è la città”, che finì per diventare il nome equivocato di Costantinopoli. Il nome İstanbul le venne dato ufficialmente solo attorno al 1930. L’attuale nome dell’odierna Istanbul riflette, nel corso dei secoli, il succedersi delle civiltà che ne hanno segnato la storia. Fondata dai coloni greci di Megara nel 667 a.C. viene chiamata originariamente Bysantion in onore del loro ew Byzas. Sarà dunque Byzantium in latino e successivamente Bisanzio in italiano. Il nome greco di Konstantinoupolis, da cui il latino Constantinopolis e l’italiano Costantinopoli, che significa “Città di Costantino”. Tale nome le fu dato in onore dell’imperatore romano Costantino I quando la città divenne capitale dell Impero romano, l’11 maggio dell’anno 330. Costantino la ribattezzò Nuova Roma o Néa Rome in greco, Nova Roma in latino o Rumiyya al-Kubra in arabo. Nova Roma, non entrò mai nell’uso comune, sebbene ancora oggi la denominazione ufficiale secondo la Chiesa ortodossa ed il Patriarcato ecumenico sia Costantinopoli Nuova Roma. Costantinopoli divenne successivamente la capitale dell’Impero Bizantino. La forma Costantinopoli è attestata in uso ufficiale sotto l’imperatore Teodosio II, 408-450 d.C. Questo nome è rimasto il nome ufficiale principale della città per tutto il periodo bizantino, e ha conservato questo nime anche dopo il 1453 quando venne conquistata dai turchi, con la suasua variante Kostantiniyye da parte dell’Impero Ottomano fino all’avvento della Repubblica di Turchia. La città fu chiamata, nel corso dei secoli, con svariati altri nomi, Città dell’Islam o Islambol sotto i turchi ottomani, Città di Michele o Michaelgrad o anche Città di Cesare o Zarigrad in slavo. Gostandnubolis in armeno. Mikligardur, Città grande dai mercenari Vareghi, cioè i Vichinghi. İslambol, centro dell’Islam, perché fu sede, dal 1527 al 1924 del Califfato Islamico, Pay-i taht, Il piede del trono in persiano. Secondo alcuni l’attuale nome İstanbul potrebbe derivare dalla semplice corruzione del greco Konstantinoupolis dove “pol” è diventato “bul”. La riluttanza araba, persiana e turca, a pronunciare una parola che cominci con due consonanti, potrebbe aver indotto a premettere loro una I per l’antica Costantinopoli turchizzata Il nome Stambul denominava in passato la penisola storica, cioè la città all’interno delle mura. Nel 1928, l’alfabeto turco adottò al posto della scrittura araba i caratteri latini. Dopo di che, la Turchia cominciò a spingere gli altri paesi a utilizzare nomi turchi per le città turche, invece di altre traslitterazioni per la scrittura latina che erano state in uso in epoca ottomana. Lettere e pacchi inviati a “Costantinopoli” invece di “Istanbul” non furono più recapitati dalle poste turche, il che contribuì all’adozione definitiva a livello mondiale del nuovo nome. Come si vede la città fu chiamata, nel corso dei secoli, con molti altri nomi, a testimonianza della sua natura di ponte fra diverse culture e della sua storia vissuta a cavallo fra mondi diversi e come capitale di più imperi.
Favria 25.05.2017 Giorgio Cortese

Ogni tanto mi fa bene fingermi più stupido di quello che sono. È l’occasione che mi creo per guardare gli altri agire nei miei confronti mentre pensano che sono totalmente incapace di difendermi. E cosi arriva il momento in cui comprendo chi ci tiene e chi ha sempre fatto finta di tenerci.

L’uncino con la leggerezza della destrezza e agilità
Una mattina sono andato a prendere un caffè con mio collega Luca, che con gli occhi che sprizzano entusiasmo mi ha parlato dello sport che continua a praticare, prima nella massima divisione e adesso non più a livello agonistico. Mi ha parlato di uno sport dove un buon giocatore deve possedere tre qualità essenziali. la destrezza, l’agilità e la capacità di valutazione tattica del gioco. Ma la vera caratteristica di questo sport è da ricercare in ambito culturale, dove le doti morali e comportamentali sono messe al primo posto, insomma uno sport da veri gentiluomini!. Ma di cosa parlo? Dell’’hockey su prato, un gioco che ha origini molto antiche, si pensa che i primi a praticarlo furono i persiani, altri dicono che furono i giapponesi, ma tracce di giochi con bastone e palla sono attestate presso ogni civiltà. Dovunque sono state rinvenute sculture, dipinti, manufatti decorati con scene raffiguranti giochi simili all’hockey. Nell’Europa medioevale l’hockey era assai popolare, ma è tra il 1861 ed il 1875, che in Inghilterra, l’hockey moderno, insieme al calcio ed al rugby, prende forma definitiva, con la nascita della relativa federazione. Da li poi gli inglesi grazie al loro florido impero di quel periodo lo diffusero tra le colonie in special modo in India. Ancora oggi Pakistan, India ed altri Paesi orientali sono fra le migliori nazioni in questo sport praticato in ben 140 nazioni. Al maschile è sport olimpico dal 1908, al femminile dall’80. L’Italia è attorno al ventesimo posto nel ranking mondiale. I Paesi emergenti sono oggi quelli dell’est Europa. Certo furono gli inglesi a assegnarle il nome di hockey, da uncino, bastone ricurvo, ma la morale di questo sport è lineare e cristallina. Se qualcuno avesse l’idea che il bastone in mano possa invogliare atteggiamenti offensivi si sbaglia: L’hockey su prato, non è gioco di contatto, ed è frequente vedere i giocatori professionisti far cadere il bastone prima di chiedere spiegazioni all’arbitro o discutere con un avversario, un aspetto che lo distingue nettamente dai cugini dell’hockey a rotelle e su ghiaccio dove le risse fanno quasi parte del gioco, in questo sport l’abilità e la creatività individuali sono messe al servizio del gruppo. Simbolo del primato dato alla lealtà sportiva è la regola detta dell’ostruzione dove in alcun modo un giocatore può frapporsi con il corpo o col bastone fra l’avversario e la pallina in suo possesso impedendogli di giocarla. In conclusione parlando di sport che è l’unico spettacolo che, per quante volte io lo veda, non so mai come andrà a finire, non fa vivere più a lungo, ma fa vivere più giovani. E poi come diceva Omero, non c’è gloria più grande per un essere umano che mostrare la leggerezza dei suoi piedi e la forza delle sue braccia.
Favria, 26.05.2017 Giorgio Cortese

Il battito del giorno scandisce lo scorrere del tempo che nella sua corsa che vince la sua partita, ma il mio quotidiano impulso mi dona la gioia dell’attimo che vivo.

Il giglio bianco
Il Giglio, noto anche come Lilium, è una pianta appartenente alla famiglia delle Liliaceae e, come l’Iris, è originario dell’Europa, dell’Asia e del Nord America. Il Giglio può raggiungere i 2 metri di altezza, e presenta fiori dai più svariati colori a seconda della specie e del cultivar. Originario della penisola balcanica e dell’Asia occidentale è stato portato nel bacino del Mediterraneo dai Fenici. Il Giglio è considerato infatti il più antico fiore usato a scopo ornamentale e compare nell’iconografia e nelle tradizioni di diverse civiltà e culti. Presso gli imperi egiziano e assiro il Giglio diventò l’emblema della sovranità reale e dell’innocenza verginale delle ragazze avviate al matrimonio. Secondo i miti degli antichi greci, il giglio bianco naque da una goccia di latte caduta a terra durante l’allattamento di Hera ad Ercole. In effetti, poichè Ercole era figlio del dio Zeus e della mortale Alcmene, Zeus pretese che Ercole fosse allattato dal petto di sua moglie, la dea Hera, per diventare immortale. Mentre lei dormiva, misero il bambino sul suo petto e, quando lo allattò, alcune gocce di latte finirono, nell’ universo creando la Via Lattea, e le gocce che caddero in terra vennero chiamate giglio bianco. Presso i Greci e i Romani il Giglio bianco simboleggiava l’amore sublime e la procreazione. Da una tradizione apocrifa del Vangelo, il giglio di Pasqua cresceva nel giardino del Getsemani, dove Giuda aveva tradito Gesù. Altri testi apocrifi narrano che il giglio bianco, spuntò nel punto dove caddero le lacrime e il sudore di Gesù negli ultimi istanti della sua vita. Il giglio bianco è il simbolo di purezza della Beata Vergine Maria, ma anche dell’Arcangelo Gabriele e a Sant’Antonio di Padova, più in generale, alla castità e alla purezza. Tra le tante leggende in cui il Giglio è protagonista si narra che Maria abbia scelto Giuseppe perché lo vide con un Giglio tra le mani. Una leggenda narra di quando la tomba di Maria fu visitata tre giorni dopo il suo funerale, apparve un intero mazzo di magnifici gigli bianchi. In un diverso contesto femminile, il giglio ha avuto un posto importante nel Paradiso di Adamo ed Eva e una tradizione apocrifa narra che, quando Eva lasciò il Giardino dell’Eden, versò lacrime di pentimento e da quelle lacrime di pentimento spuntarono i gigli. I gigli erano i segni di protezione dei Cavalieri Templari. Il significato più antico e che dura ancora oggi di questo bellissimo fiore è la purezza e la castità, ma esprime anche nobiltà e fierezza d’animo. È il fiore ideale da regalare ad una donna fiera, onesta e di classe così da considerarla come una regina. Mi viene da riflettera al pensare che nella vita di tutti i giorni il buon esempio è simile ad un fiore dei campi di buona fragranza che si confonde fra l’erba, eppure si sente, ma è anche simile al giglio bianco che vedo e che mi rallegra l’animo.
Favria, 27.05.2017 Giorgio Cortese

Se ascolto l’esperienza, questa mi dice di attendere il momento ideale, nel quale tutto è sicuro e garantito, può darsi che quel momento non arrivi mai. E allora non si scalano montagne, non si vincono le corse e non si raggiunge la felicità. Invece l’istante occupa uno stretto spazio fra la speranza e il rimpianto, ed è lo spazio della vita che riempie il cuore di emozioni.