Da vocare a voucher. – Ceice e Alcione, dal mito alla festa degli innamorati. – Res Gestae Favriesi, la marmitta.- L’idiota. – Perché mi cancelli? – Sprezzante o retrivo! – Dagli arabi, ussari agli alamari dei Carabinieri e ai bottoni del montgomery. – Brumel non solo atleta ma anche compositore musicale…LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Da vocare a voucher.
Oggigiorno si sente sempre di più parlare di voucher, lemma inglese che deriva dal verbo to vouch, attestare, garantire, che deriva dal latino vocare, chiamare. In italiano viene usato al maschile all’inizio per indicare il documento rilasciato da un’agenzia di viaggio ai proprî clienti, come attestazione del diritto a usufruire gratuitamente, nel loro viaggio, di determinati servizî, soggiorno in alberghi, pasti, escursioni, mezzi di trasporto, già pagati in precedenza all’agenzia. Insomma i voucher agesso sono utilizzati per buoni lavoro, e sono divenuti un elemento del grande contenitore denominato “lavoro accessorio”, di situazioni eterogenee: dove accanto a un nucleo consistente di situazioni in cui il minuscolo voucher giornaliero fatica a mascherare il suo ruolo di leva archimedea per supportare prestazioni di lavoro nero, esistono altre situazioni, non proprio residuali, in cui la remunerazione tramite voucher è individuata dal committente come lo strumento più semplice per prestazioni anche di elevato contenuto professionale. Mi pare che si sia cercato di correre ai ripari con la tracciabilità dei voucher che è stata una delle principali novità del correttivo Jobs act, il dlgs n. 185/2016 in vigore dall’8 ottobre 2016. Ma per quello che ne so, vista la mia limitata conoscenza della legge citata,questa tracciabilità tocca esclusivamente il mondo delle Partite Iva, cioè imprese e professionisti. Sono esclusi, invece, gli altri attori committenti della vita economicai, cioè le famiglie e anche il mondo del non-profit. La Faq 7 del ministero del lavoro precisa, infatti, che i soggetti che, pur in possesso di Partita Iva non sono imprenditori, pubbliche amministrazioni, ambasciate, partiti, Onlus, associazioni sindacali, parrocchie,non devono effettuare la nuova comunicazione, ma provvedere esclusivamente alla dichiarazione d’inizio di attività nei confronti dell’Inps. Insomma i buoni lavorio per italinizzare il nome inglese di vouchers, nati per regolarizzare le piccole prestazioni accessorie e occasionali, hanno ormai raggiunto ormai enormi dimensioni, con conseguenze sociali nell’immediato di impoverimento dei lavoratori e nel lungo periodo di uno strutturale peggioramento della natura stessa del lavoro e dei rapporti che esso determina. A parere mio un passo indietro rispetto alla tutela dei lavoratori, una pericolosa destrutturazione dei rapporti di lavoro, affidati a un “buono” anziché a un “contratto”, dove il lavoratore mette la mando d’opera ed il padrone le sue capacità imprenditoriali. Questo mi ricorda l’esclamazione con cui Cicerone, nell’orazione pronunciata contro il suo attentatore Catilina, deplora il malcostume imperante dei suoi tempi: “O tempora, o mores!”
Favria, 19.02.2017 Giorgio Cortese

Nella vita di ogni giorno tutto va imparato non per esibirlo ma per adoperarlo!

Ceice e Alcione, dal mito alla festa degli innamorati
Gli dei greci erano molto vicini ai mortali, con i quali avevano in comune pregi e difetti, e spesso scendevano sulla terra, sia per combattere al loro fianco, sia per unirsi a loro, generando semidei come Eracle, Armonia, Perseo o Elena. Il confine fra dei e uomini poteva essere valicato, ma solo se erano gli dei a volerlo le conseguenze per i mortali non erano nefaste. Se gli esseri umani decidevano di violare questo confine, gli dei sfidati li punivano duramente. Agli uomini e alle donne non era concesso paragonarsi agli dei, né fare a meno di loro, né agire contro la loro volontà. I greci avevano un nome preciso per il momento in cui un essere umano valicava di sua iniziativa il confine con gli dei, “hybris”, che in italiano si può rendere con “eccesso”. Ma al momento della morte, e solo allora, sembra che gli dei provino pietà, come se comprendessero l’eccesso del desiderio umano. Per S. Valentino trovo interessante raccontare questo mito sull’amore dell’Antica Grecia. Ceice, figlio di Eosforo, la Stella Mattutina, personificazione della luce, era sposato con Alcione, figlia di Eolo, Signore dei Venti, coniugi reali della Tracia e la loro unione era tanto felice ed erano tanto innamorati come narra Apollodoro, entrambi si pensavano di non essere da meno dei sovrani degli dei, si chiamavano con i loro nomi: Zeus e Era. La vicenda viene riportata anche da Ovidio nelle sue Metamorfosi, opera in cui la storia si arricchisce di alcuni particolari. Pare infatti che Alcione provasse da tempo delle strane sensazioni, come oscuri presentimenti quando Ceice decise comunque di partire per mare. Gli infausti sentimenti della donna trovarono triste conferma quando Ceice rimase vittima di una tempesta a causa della quale morì. I presagi per Alcione però non erano ancora finiti e la notte stessa Ceice le apparì in sogno mettendola a conoscenza della sua tragica sorte. Quando, il mattino seguente, Alcione trovò sulla spiaggia il corpo senza vita dell’amato marito, il dolore fu talmente forte che ella si tramutò in un uccello in grado di emettere tristi suoni lamentosi. A questo spettacolo, anche gli dei si mossero a compassione e, in un estremo atto di carità, permisero che anche Ceice si tramutasse in uccello. Marito e moglie furono così nuovamente insieme e felici. E’ proprio vero che tra due innamorati quello che li unisce è il legame della forza del cuore, con un linguaggio fatto di sguardi, di tenere carezze d’amore. Nella vita tutti ci innamoriamo prima o poi di una determinata persona, perché troviamo in lei il nostro abbraccio perfetto, l’incastro del cuore, insomma siamo l’amore che amiamo, perché solo chi ama gode di tutti gli istanti del cuore. Buona vita a tutti gli esseri umani che credono nella forza del cuore e dell’amore, dove non ci interessa avere il superfluo, ma dove vogliamo l’essenziale, e ci basta il cuore dell’amata per sempre!
Favria 20.02.2017 Giorgio Cortese

Per essere sereno, ogni giorno devo conoscere i confini delle mie umane possibilità, ed essere felice della mia nediocrità

Res Gestae Favriesi, la marmitta
Da una anziana signora ho sentito diverso tempo addietro questa curiosa espressione nell’indicare le pentole della cucina. L’uso di questo temine mi ha incuriosito perché abbinavo alla parola marmitta, quelle delle auto o anche a quella dei fumetti di Asterix e Obelix dove questo ultimo era caduto da piccolo nella marmitta con la porzione magica. Il lemma marmitta deriva dal francese marmite che deriva, per credibile ipotesi, dalla composizione di due voci, entrambe onomatopeiche. La prima è quella riconducibile alla radice dei verbi marmouser/marmonner, mormorare, parlare a voce bassa tra i denti. La seconda è mite, sempre dal francese antico con il significato di gatta da dove deriva anche il nostro termine di micio.secondo altri studiosi la parola sempre da due parole francesi mar, cucinare, e mit, alimenti. Anticamente era un vaso con una bocca e di un fondo di uguale diametro e parete bombata che si allarga nella parte mediana: tale bombatura permetteva di regolare la distanza dalla fonte di calore, arbone o legna, per aumentare e diminuire la temperatura all’interno, in epoca in cui non si disponeva di manopole sui fornelli, posizionandola su appositi sostegni, di solito cerchi. Inoltre la bombatura, insieme al coperchio, consentiva di far ricadere all’interno, senza disperdere, gli aromi che durante la bollitura delle vivande si producevano mantenendo più gusto alla pietanza. Tale tipo di pentola venne adottata dai militari dove veniva cotta la carne e la minestra i soldati e da li a chiamarli marmittoni il passo è stato breve. Ma di marmitte non ce ne è una sola. Con la Grande Guerra del 1914-1918 la marmitta consolidò il significato di obice, grosso proiettile d’artiglieria pesante che annunciava la sua traiettoria con notevole fragore. Anteriore è il termine tecnico di “marmitta dei giganti” per indicare una cavità più o meno circolare che può raggiungere diversi metri di diametro prodotta dall’erosione delle acque sulle coste rocciose e identificabile da lontano per il rumore delle acque rimestate all’interno. E vi è poi la recentissima marmitta, destinata ad assorbire il rumore “prodotto dalla fuoriuscita dei gas di scarico del motore a scoppio”. i silenziatori sono una parte dell’impianto di scarico che viene chiamato comunemente con il termine “marmitta”, data la forma dell’oggetto che ricorda appunto una marmitta. Ma è il fragore confuso e indistinto è il tratto comune di tutte le marmitte.
Favria 21.02.2017 Giorgio Cortese

Il primo modo per valutare l’intelligenza di certe persone è di vedere di quali miseri ominidi si circonda

L’idiota
Ho recentemente riletto “l’idiota” di Fedor Dostoevskij, un autore non facile che va assimilato. Questo libro viene considerato universalmente come il capolavoro di Dostoevskij, non è sicuramente un libro facile ma è di una bellezza poetica unica che consente di comprendere il rapporto tra l’uomo, il dolore e Dio trasmessoci dall’autore. Nell’idiota si legge come la verità viene uccisa dalle obiezione degli idioti, ma se uno che viene ritenuto idiota proclama la verità gli viene concesso tutto, la pietà concede quello che la severità delle intenzioni non perdona. Il protagonista il principe Lev Nicolaevic Myskin persona che cerca con la compassione di redimere il prossimo, e qui molti dubbi nascono sul concetto del bene e del male. Sembra quasi che il protagonista abbia eretto una sua morale che vive prima della morale. É difficile accettare che attraverso il dolore si possa salvare l’umanità, a me sembra che il principe Myskin sia un mix di narcisismo e di cinismo in cui l’egoismo è contrabbandato per compassione. Forse Myskin si vuole sostituire a Dio con la sua ineffabilità che tutto rende incomprensibile? Ma basta lo o stravagante modo di vestire, che oggi verrebbe definito casual, e che cento anni fa gli sarebbe valso il titolo di straccione a fare del ventisettenne principe Myskin un idiota?O forse è ritenuto tale perché non sa nascondere ciò che pensa e prova? O piuttosto perché, per queste sue caratteristiche, mostra di non saper stare in società, di non saper affogare se stesso nelle convenzioni e nei riti di cui essa vive? Ma l’aspetto più difficile da un’altra figura chiave del romanzo Nastasja Filipovna che vive riflettendo se stessa nel principe Myskin la cui struggente pietà alimenta la sua speranza di redenzione. Celebre è la frase di Dostoevskij: “ la Bellezza salverà il mondo”, ma a quale Bellezza fa riferimento? In conclusione è un classico da rileggere perché la storia del principe Myskin è una riflessione lunga 500 pagine di come spesso la bontà nel mondo venga confusa in stupidità, e al contrario di altri romanzi di Dostoevskij qui non c’è la redenzione finale, qui l’amore non vince tutto come in Delitto e castigo, qui paga uno per tutti, paga chi non ha colpe. Ma allora conviene quindi essere buoni in un mondo di cattivi? Ritengo che l’autore con questo romanzo ci insegni a guardare il mondo e una società che definisce la compassione Idiozia per non doverla soppesare. E il principe Myskinè un lampo che trasforma le malvagità umane in “febbre celebrale”. Nessuno lo comprende. Tranne Nastasja, a lui simile, gli estremi di una fragilità che conduce inevitabilmente alla distruzione. Quello di Dostoevskij non è un messaggio si speranza, ma di amara critica. Ogni giorno cerchiamo la bontà, ma al suo cospetto chiudiamo gli occhi è’ forse un’idiozia?
Favria, 22.02.2017 Giorgio Cortese

Anche se va male ci sono tante consolazioni! C’è l’alto cielo azzurro, limpido e sereno, in cui fluttuano sempre nuvole imperfette.

Perché mi cancelli?
Sui social forum imperversano i vigliacchi che hanno come motto: “ Se mi critichi Ti cancello!”. Che Ci piaccia o no oggi viviamo tra il reale ed il virtuale, ed i fondamenti delle relazioni interpersonali sono profondamente cambiati. Sui social network mediante il quale scambio immagini e notizie col mondo, dove esprimo e ricevo approvazione e dissenso, piazza virtuale dove sono iscritto a gruppi o ne fondo di nuovi, dove trovo postate foto buoniste di teneri animali anche se magari gli autori sono malvagi con gli esseri umani ed i loro famigliari, rende molto più superficiali di un tempo i rapporti tra noi bipedi che ci riteniamo evoluti. Un mondo dove trovo persone meschine che se vengono criticate, invece di aprire delle discussioni o di lasciare perdere operano una sorta di contemporanea damnatio memoriae. Anche perché, oltre che cancellarla, una persona si può anche “bannare”, ovvero bloccarla per impedire qualsiasi contatto. Ma non sarà che questo lemma banno, sia un lontano eco del medievale bando!. Teniamo presente che se nella vita reale è difficile stabilire chi tra due persone abbia iniziato un rapporto, riguardo a Facebook è normale affermare “mi ha chiesto l’amicizia, mi ha dato l’amicizia, mi ha tolto l’amicizia”. Un modo netto, dunque, di porre in chiaro l’equilibrio della relazione. Altro dato iniziale, nella vita reale gli amici veri possono non vedersi per anni senza che le percezioni personali ne risultino intaccate, invece, su Facebook se dei presunti amici Ti cancellano Te ne accorgi quasi subito. Ma perché si toglie l’amicizia? Di solito è un piccolo, e spesso meschino, esercizio di potere, con l’azione del rimuovere qualcuno come amico virtuale, si agisce in fretta e di nascosto. Ma la vera novità è che da quando esiste Facebook, esiste anche la non-amicizia, che non è, come nella vita reale, una condizione tra due persone che prima sono state amiche e poi, per qualsivoglia motivo, hanno smesso di vedersi, nei social forum una semplice opzione dove ogni raziocinio sembra svanire di fronte alla voglia di mostrarsi potenti, di decidere, come se si trattasse di una esecuzione capitale, tu sopravvivi e tu no. Una scelta virtuale che contiene in sé il desiderio di annientamento del soggetto contro il quale si dirige la condanna, reso inoffensivo dall’unilateralità dell’atto, dall’assenza del processo di appello. Possono sembrare metafore forti ma, credetemi, questa è la realtà del mondo virtuale, e scusate il gioco di parole. Il cancellarti è la forza di un debole di animo e di intelligenza, che ha solo la voglia di ripicca, e non nella legittima e necessaria azione contro un molestatore o una persona che ci è ignota o con la quale, semplicemente, non ho voglia di relazionarmi. Perché nella vita reale non basta un click per “liberarsi” di un amico/nemico: ci vuole il coraggio di guardarlo negli occhi, di dirgli che ha sbagliato, di accettare un contraddittorio, e di riconoscere anche le proprie, di colpe. Ma Facebook rende tutto più facile, almeno virtualmente per i vigliacchi. Quello che certi miseri e viscidi esseri vorrebbero provocare con la cancellazione dell’amicizia è una reazione di malessere, perché a nessuno piace il “banno”, con l’immediato oscuramento delle informazioni. Sono delle vendette meschine simili a chi se la prende con degli oggetti dell’avversari ma non ha il coraggio di misurarsi con loro in un pubblico contradditorio, insomma vendette di vigliacchi che hanno la coda di paglia. L’ostracismo di queste persone mi fa ridere, mi fanno pena. Se ci fosse un premio per la falsità state tranquilli che ricevereste senza dubbio il primo premio. Vi do uno spassionato consiglio scendete dal piedistallo e imparate a vivere e andate anche a lavorare, il mondo non sa che farsene di persone patetiche e false come Voi.
Favria 23.02.2017 Giorgio Cortese

Ogni giorno il senso della ricerca sta nel cammino fatto e non nella meta, perché il fine del viaggio è il viaggiatore stesso e non l’arrivare.

Sprezzante o retrivo!
Il verbo sprezzare, come il più frequente, con il più frequente disprezzare, provengono dal latino: “prezzo, pregio, valore”. La proposizione ex-, da cui proviene la s- iniziale italiana rimanda all’idea di allontanamento o negazione. Le persone sprezzanti, dunque, si comportano come se gli altri non valessero niente. Un atteggiamento diffuso di persone che conosco, che si ritengo vincenti e supremi ma che forse non hanno mai letto quanto scriveva Schopenauer che, nella vita per riconoscere il valore di una persona bisogna averne di proprio! Insomma hanno un atteggiamento retrivo e non solo retrogrado ed avverso al progresso ma avverso ad un minimo ed onesto buonsenso. Già retrivo, lemma che proviene dal latino retro dietro, indietro. Insomma una parola pulita e complessa, che mi permette di spiegare che le persone retrive non disprezzano semplicemente l’innovazione ma cercano di fare valere modelli, idee e schemi passati perché sono ignoranti come capre e chiedo scusa alle capre!. Sono persone ignoranti e dotati di scarsa intelligenza e si oppongono alla novità non per scelta razionale, ma per un impulso di pancia, per sprezzante abitudine, ma almeno fossero dei reazionari dotati di sbagliata ideologia, almeno con loro si potrebbe discutere. Sono persone che vivono chiuse nei ruoli che si sono ritagliati e hanno perso la realtà dei fatti. Come detto prima persone che si ritengono supremema che hanno solo igniavia culturale e mentale, e sono dotati di mancanza di volontà che li paralizza in una posizione confortevole dove non prendono mai posizione su spinose questioni etiche e politiche. Insomma figuri con una neutralità mineralizzata nella comoda pigrizia, per loro sicuramente vantaggiosa. Personaggi che vivono ogni giorno la vita di illusa inerzia convinti che l’inazione, sia sempre una saggia e conveniente scelta di vita. Ma questo loro buonsenso può diventare senso dannoso. Il buon senso, come nel giudizio valore, diventa facilmente monolitico, compatto, un pensiero unico intollerante che non annette alternative. E di conseguenza in questi personaggi può contenere un alto potenziale distruttivo per finire di diventare “senso dannoso”. Se la vita, oltre essere l’azione , condivisione, ricerca di una propria espressione di una caratteristica personale di una particolare identità, con le quali interpretare e dare valore al vivere in maniera positiva su questa terra, per questi figuri con il loro “buonsenso” sono più dannosi di un terremoto perché ci distruggono la vita quotidiana
Favria 24.02.2017 Giorgio Cortese

Non possiedo la formula del successo, ma sicuramente conosco quella per il fallimento, che è: cercare di accontentare tutti.

Dagli arabi, ussari agli alamari dei Carabinieri e ai bottoni del montgomery.
L’impero Austro-Ungarico spazzato via dalla prima guerra mondiale rimane nella moda degli alamari. Infatti tra il XVIII ed il XX secolo l’esercito Austro-Ungarico influenzò la moda militare e non solo in tutta Europa e non solo e gli alamari ne sono una prova. Gli ussari un tipo di cavalleria leggera del Regno d’Ungheria, corpo nato nel XV secolo avevano delle uniformi riccamente decorate da trecciolini di lana, alamari appunto. Queste treccioline erano rinforzate con un filo di metallo all’interno e la loro funzione originaria era quellai di proteggere il cavaliere dalle sciabolate degli avversari, all’inizio gli ottomani. L’alamaro è divenuta dopo un tipo di allacciatura realizzata con una striscia di seta, pelle o cordoncino chiusa a cappio a formare un occhiello, dove viene fatto passare un bottone. Oggi l’allacciatura ad alamari caratterizza inoltre la giacca montgomery, che nella sua versione più classica si presenta con i tipici bottoni a forma di corno. Per questa ragione il termine alamaro viene spesso utilizzato anche per indicare i bottoni di forma allungata. Tornnando all’origine degli alamari qualcono ritiene che il nome derivi da quello del condottiero arabo noto in Italia come Museto, Mussetto o Mugetto militare della Spagna islamica, schiavo di origine che lega sua fama si lega al suo fallito tentativo di conquista dell’isola della Sardegna, a causa del congiunto intervento delle forze navali di Pisa, Genova e dei Giudicati. Per la cronaca i Giudicati sardo erano enti statatli diverse dal regime feduale in Europa, molto simili come struttura all’amministrazione bizantina ed ebbero potere dal IX al XV secolo. Questa alleanza portò si la sconfitta degli arabi ma anche il declino dell’autonomia Sarda e la penatrazione amministrativa di Genova e Pisa. Tornando agli alamari l’influenza di questo ammiraglio arabo fu tale da far nascere diverse leggende, tra cui alcune che gli attribuiscono l’invenzione dei disegni arabescati, usati per riconoscere il proprio grado sul bavero della giubba, e l’invenzione degli alamari, il cui nome, secondo una facile e falsa etimologia deriverebbe da Mujahid al-AmirI. Ma molto probabilmente il lemma alamaro deriva dallo spagnolo alamar, proveniente a sua volta dall’ arabo al amara, ovvero cordone.in Italia gli alamari argento su fondo rosso sono uno dei simboli storici dell’Arma dei Carabinieri fino dalla sua fondazione. Vennero infatti adottati il 23 giugno 1814, cioè in fase di organizzazione del Corpo, su proposta del capitano Camillo Beccaria, convinto che la bellezza dell’ornamento avrebbe incentivato molti giovani ad arruolarsi. E gli alamari sono anche simbolo distintivo dei Granatieri di Sardegna dopo il fatto d’arme della battaglia dell’Assietta, il 19 luglio 1747 dopo che, strappato l’ornamento alle giacche dell’esercito Franco-Ispanico sconfitto, Il Re Carlo Emanuele III di Savoia decise che i suoi Granatieri Guardie ornassero le loro sopravvesti con gli Alamari Bianchi. Una curiosità i granatieri derivano dall’antico Reggimento delle guardie reali creato nel 1659 dal duca Carlo Emanuele II di Savoia ed il titolo “granatieri” deriva dal fatto che, nel 1685, il re Vittorio Amedeo II di Savoia assegnò ad ogni compagnia del reggimento sei soldati incaricati di lanciare allo scoperto le granate.
Favria., 25.02.2017 Giorgio Cortese

Aspettarmi sempre che gli altri facciano il loro dovere è il miglior alibi per non fare mai il mio

Brumel non solo atleta ma anche compositore musicale.
Se uno dice o scrive Brumel ai più viene in mente Valery Nikolaevic Brumel, medaglia d’argento alle Olimpiadi di Roma del 1960 che gli valse il soprannome di “Lord Brumel”, per la bravura e leggiadria stilistica che lo contraddistingueva. Insomma uno dei più grandi esponenti del salto in alto ventrale della storia. Ma esiste anche un Antoine Brumel nato a Bruxelles nel 1460 e morto nel 1513. Brumel è tra i primi ad esplorare una strada nuova, dando importanza, anche per il numero elevato delle voci, all’aspetto verticale dell’organizzazione dei suoni, ovvero agli accordi formati dalle note nelle varie voci. All’epoca di Brumel si dava importanza in primo luogo all’aspetto orizzontale ovvero lo sviluppo, in orizzontale, delle melodie nelle singole voci. L’attenzione all’aspetto verticale crescerà progressivamente nei decenni successivi, poi nel secolo successivo, per arrivare col Settecento all’armonia tonale. La messa più nota di Brumel era la Missa de Beata Virgine, una messa parafrasi che utilizza più melodie gregoriane. Questa composizione come altre nel periodo ha una peculiarità interessante: il testo liturgico presenta delle aggiunte, legate all’allegoria “Spiritus et alme”, all’interno del Gloria. Queste metafore si possono trovare anche in altre Messe polifoniche, come, in precedenza, nelle versioni dell’Ordinario della messa intonate in gregoriano. Il loro uso non fu più consentito dopo il Concilio di Trento del 1545 -1563. Brumel scrisse anche vari mottetti, chansons e alcuni brani strumentali che sono molto piacevoli da ascoltare
Favria, 26.02.2017 Giorgio Cortese

Un’anima non è mai senza la scorta degli angeli, questi spiriti illuminati sanno benissimo che l’anima nostra ha più valore che non tutto il mondo.