Cara amica Paura, – Fé San Martin – Il castello dei Carpazi.. – Bonèt! – Pungere ed espungere. – Ronco, Ronch Canavèis in piemontese, Ronk in francoprovenzale… LE PAGINE DI GIORGIO CORTESE

Cara amica Paura,
Tu arrivi con la Tua amica Angoscia sempre quando meno te l’aspetti. Sei maleducata perché entri nel mio animo senza neanche bussare, e poi Ti piazzi li nel centro dell’animo, nel cuore della notte, invadente e meschina. Cara amica Paura, Ti devo ringraziare perché mi ricordi con il Tuo apparire la mia fragilità umana, mi ricordi che questa pandemia porterà ad un cambiamento dei miei rapporti sociali e il cambiamento fa paura. La paura di ammalarmi, la paura di non sentirmi all’altezza in questa situazione, la paura di non sentire più una stretta di mano, di non avere più la possibilità di abbracciare, la paura di piombare di nuovo in clausura come la passata Primavera. Carissime Paura e Angoscia sappiate che io non ho nulla a che fare con Voi, perché so bene che siete proprio Voi nel silenzio della notte che cercate di creare questi blocchi nel mio animo per rendermi fermo, incapace di reagire e cadere in balia di Voi. Con la Vostra strategia volete spingermi giù verso il melmoso fondale della Disperazione che vuole soffocarmi nell’animo. Ma non ci riuscirete perché io ho un’arma potente, Paura e Angoscia e Voi non lo sapete, non avete nemmeno la minima immaginazione di quanto io sia effettivamente più forte di Voi, se tutte le volte che tornate a sfidarmi ne uscite sconfitte e svaporate dall’animo. Ma pensate ancora di intimorirmi come un incubo da cui vorreste farmi uscire con l’affanno? Pensate di spaventarmi come nei film horror? Beh allora forse non avete capito nulla, contro di Voi ho una marcia in più, la fiducia e l’ottimismo che la lunga notte finirà. Nutro ogni giorno il mio animo di speranza e positività, insomma dormo sonni tranquilli. Ma soprattutto, care Paura e Angoscia negli anni ormai ho imparato l’arte di accettarmi come sono, con i miei umani limiti e ogni volta che farete capolino nel mio animo, sono sicuro che vincerò io e sarò tutte le volte più forte di prima. Ma non temete Paura e Angoscia, se avete paura sono qui per condividere la mia piccola candela di felicità con Voi e anche per abbracciarvi, non abbiate paura!
Favria, 10.11.2020 Giorgio Cortese

Certi giorni ci ripetiamo che non ce la faremo, ma quanto siamo disposti ad impegnarci, per farcela?

Fé San Martin
A San Martino un tempo nelle campagne scadevano i contratti d’affitto, ed è per questo che è nato il modo di dire “Fare San Martino”, per significare “fare trasloco”, poiché appunto gli affittuari cui non era stato rinnovato il contratto d’affitto, o che avevano trovato migliori condizioni con un altro proprietario, era proprio nel giorno di San Martino che si spostavano dalla vecchia alla nuova cascina, portando su di un grande carro trainato da buoi, il “tamagnon”, tutti i loro averi, figli e nonni compresi. San Martino viene citato nei Promessi Sposi quando scade la scellerata scommessa tra Don Rodrigo e suo cugino Attilio, per sedurre la giovane popolana e anche i tumulti del pane nel romanzo si svolgono sempre in quel giorno. Il giorno di San Martino, comunque, oltre a segnare gli eventuali traslochi in campagna, aveva anche un’altra importante funzione nel calendario liturgico-popolare di un tempo: era infatti il momento di assaggiare il vino nuovo, a San Martin el most a l’é vin, a San Martino il mosto è vino, per cui si diceva a San Martin bèiv el bon vin e lassa l’eva andé al mulin, a San Martino bevi il vino buono e l’acqua lasciala andare al mulino. E per finire, l’istà ’d San Martin a dura tre di e ’n cicinin, l’estate di San Martino dura tre giorni ed un pochettino.
Favria, 11.11.2020 Giorgio Cortese

Durante la giornata la cosa più difficile è la decisione iniziale di agire, il resto è solo tenacia. Le paure sono tigri di carta.

Il castello dei Carpazi….
Il castello dei Carpazi di J. Verne fu pubblicato nel 1892 a puntate sul Magasin d’Éducation et de Récréation, è considerato un romanzo profetico da molti punti di vista: innanzitutto è ambientato in un lugubre castello della Transilvania, una ambientazione che solo solo cinque anni dopo Bram Stoker utilizzerà per il suo immortale Dracula. Verne aveva intuito le grandi potenzialità letterarie di quell’atmosfera. Il romamzo si svolge in Transilvania nel XIX secolo. La tranquillità del remoto villaggio di Werst è turbata da una serie di strane attività intorno al burg, il castello in rovina disabitato, il proprietario, il barone Rodolphe de Gortz, è partito da molti anni, forse è morto, castello che domina il territorio dall’impervio colle di Vulkan. Fumo dai camini, innanzitutto: sarà qualche occupante abusivo o un fuoco arcano acceso dal Chort, il diavolo dei Carpazi? L’aitante guardia forestale Nicolas Deck e l’ex infermiere Patak, che tutti in paese chiamano rispettosamente “dottore”, vengono scelti per andare a indagare. Dopo un giorno di marcia, arrivano al castello ma sta facendo buio e decidono saggiamente di attendere il mattino seguente per entrare. Durante la notte vengono atterriti da strane immagini che appaiono nel cielo, da rintocchi di lugubri campane e persino una misteriosa paralisi. Intanto a Werst è arrivato il giovane conte Franz de Télek, proveniente da Craiova. Costui afferma di aver conosciuto a Napoli Rodolphe de Gortz, suo rivale nell’amore per una cantante lirica italiana, soprannominata La Stilla… e mi fermo qui per non togliervi la soddisfazione di leggerlo. In questo romanzo ci sono riferimenti continui a una serie di tecnologie che all’epoca dell’uscita erano utopia, ologrammi, trasmissione delle immagini, diffusione sonora amplificata, ed allora il cinema era muto. Preveggenza tecnologica a parte, il romanzo un mix tra ingredienti gotici, il castello inaccessibile, i misteriosi fenomeni sonori e ottici che turbano le notti di chi si avventura nelle vicinanze, unita a quelli da feuilleton, la morbosa ossessione per la Stilla, il suo fato terribile. Il mistero che aleggia sul libro viene lentamente risolto, svelando una storia commovente, caratterizzata da un amore sano e un amore malato, ma sempre ricco di tenerezza. Una lettura veloce e piacevole, per chi ama questo autore e anche per chi vuole avvicinarsi a lui, perché ci sono poche tracce qui del Verne pedante e scientifico, è più simile ad una fiaba, quindi più abbordabile. Certo non è un capolavoro, non è un libro che cambierà il mondo, ma è una storia semplice, tenera e con personaggi unici.
Favria, 12.11.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno cerchiamo di non privare mai nessuno della speranza, potrebbe essere tutto quello che hanno.

Bonèt!
Il bonèt è il berretto o anche un recipiente di rame a forma di berretto usato in pasticceria. La parola deriva dal francese bonnèt, un panno usato come copricapo. Pare che derivi dal francone obbunni. Composto da ob, obe, che in antico tedesco vuole in alto, e bundi, legato. In Piemonte il bonèt è un dolce tipico, a base di amaretto. Testimonianze riguardanti la presenza sul territorio risalgono, infatti, al XIII secolo quando il suo antenato, preparato secondo una ricetta più semplice e meno ricca di ingredienti, compare tra le portate dei banchetti medievali più sontuosi. Secondo la tradizione Il bonèt, è un copricapo portato anzitutto dai i sacerdoti, la sua forma tondeggiante ricorda quella dello stampo a tronco di cono basso, dove viene cotto il budino, che venne chiamato bonèt ëd cusina, cappello da cucina, cappello del cuoco. Secondo altra tradizione popolare, che arriva dalle langhe il nome culinario richiama il cappello in quanto il dolce veniva servito a fine pasto, in analogia con il copricapo, ultimo indumento ad essere indossato prima di uscire da un luogo chiuso. Secondo tradizione il bonèt tradizionale, è a base di Fernet, necessario a stimolare e sveltire la digestione. Gli ingredienti principali sono: uova fresche, amaretto, latte, zucchero ed eventualmente. Ma, come vuole ciascun piatto della tradizione, ogni cucina, ogni “cusinera”, cuoca, ne ha una differente versione, con le sue pregevoli sfumature, caffè, nocciole, cognac, marsala, tutte uniche, squisite e da provare. Si pone sul fuoco lo stampo in cui il budino andrà cotto, vi si versa dentro dello zucchero che si farà caramellare coprendo fondo e pareti. Si travasa il composto di latte e uova nello stampo e si cuoce a bagnomaria sino a che si sia rappreso. Si lascia quindi freddare, dal momento che il dolce si gusta freddo. E quando invitati e ospiti esagerano con le porzioni di ottimo bonèt, la cuoca padrona di casa sarà senz’altro pronta a incalzarmi sorniona: “sti sì o l’è mej carieje che ‘mpìje”, questa gente è meglio caricarla che riempirla. Magister artis ingenique largitor venter!
Favria, 13.11.2020 Giorgio Cortese

Oggi 13 novembre: giornata mondiale della gentilezza. Scriveva Platone: “Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile sempre!”

Pungere ed espungere.
Sembrano simili le due parole ma non è così. Più che pungere direi compunto che significa afflitto, tormentato. Parola che deriva dal latino compungere punzecchiare, composto di con e pungere. Una bella parola, una risorsa per esprimere uno stato dell’animo durante la giornata l’afflizione. Ci sono tanti modi di essere afflitti. Si può essere afflitti (appunto), angosciati, tormentati, preoccupati, crucciati, turbati. Quella del compunto è un’afflizione intima, riservata, che si può notare in piccole espressioni del volto: qualcosa lo punge. Ben diverso dalla tempesta del tormento, dall’angoscia che stringe il respiro, dalle proiezioni della preoccupazione, dall’intensità dell’afflizione, dall’ossessione del cruccio. Nella compunzione c’è qualcosa che emerge: un rimorso che affiora alle labbra, un dolore per qualcosa che si è fatto o che è passato, un pentimento serio, un pensiero malinconico, a volte il peso dell’umiltà. Posso essere compunto nel leggere un libro che mi ha regalato una persona che non c’è più, o posso ricevere delle scuse compunte, anche se penso che siano solo false ed ipocrite oppure la severità di chi comprende una situazione difficile può trasformarsi in compunzione. Espungere significa invece quando nei si eliminano da un testo lettere, parole o frasi, segnando un punto sopra o sotto le singole lettere, o quando elimino qualcosa da una lista come quella della spesa, segnando cosa ho già fatto. La parola deriva dal latino expungere, cancellare con punti, composto da ex- fuori e pungere. Oggi siamo abituati a cancellare lettere, parole o frasi da un testo scritto con tratti decisi, evidenti: si tira una riga, si fa un frego. Invece l’espungere mi racconta una pratica enormemente più aggraziata quella di segnare con dei punti, sopra o sotto, le lettere da non considerare. È sicuramente una pratica oggi poco usata e si trova traccia solo in manoscritti vecchi di secoli, ma l’onda lunga di questa azione permane nei significati dell’espungere. E adesso mi raccomando non espungete questo testo dopo averlo letto. Grazie.
Favria, 14.11.2020 Giorgio Cortese

La speranza mi sembra che abbia le ali quando dimora nell’animo, mi sembra il canto di una dolce melodia senza parole che non si ferma mai, donandomi serenità per futuro.

Ronco, Ronch Canavèis in piemontese, Ronk in francoprovenzale.
Il toponimo compare nel 1457 come“Ron chus”. Deriva dal latino “runcus” ed indica un terreno prima incolto poi divelto, dissodato.
Li pive o li gòss, cosi vengono chiamati gli abitanti di Ronco, lasciando perdere il termine li gòos che indica il gozzo un tempo diffuso nelle valli alpine e nella collina canavesana. Interessante è il temine li pive. La piva dal latino pipa in senso ampio, qualunque tipo di cornamusa, ed in senso stretto, il piffero, o il gruppo di pifferi e bordoni, che della cornamusa è soltanto un componente. Anche, talora, nell’uso letterale, quel tipo di flauto che fu detto dai Romani tibia e dai Greci aulòs, Gli abitanti di Ronco molto probailmente erano dei provetti suonatori di strumenti a fiato e allietavano il i loro strumenti di balli a palchetto che si tenevano in Valle Soana. Simpatica è questa filastrocca che si cantava enumerando i paesi sulle dita della mano: “Coj ‘d Sernis a fan al ni, coj ‘d Scandè a fan l’è, coj del Chiò j lo ciapan, coj ‘d Ronv i lo sbaton, coj d’ Alpettà j lo lappon. Traduzione: quelli del Cernisio fanno il nido, quelli di Scandosio fanno l’uovo, quelli di Chio lo prendono, quelli di Ronco lo sbattono, quelli di Alpetta lo mangiano. Al riguardo delle pive è interessante la frase “tornare con le pive nel sacco” risale al tempo in cui abitualmente si suonavano “le pive”, che erano antichi strumenti musicali, simili alle più conosciute cornamuse, usate anche in Italia fino a dopo la Seconda guerra mondiale. Perché si cita la seconda guerra mondiale? Perché le pive, insieme alle trombe, venivano utilizzate proprio dai reparti militari durante le avanzate, dunque nella fase di attacco, ma mai quando le truppe erano costrette alla ritirata. In fase di arretramento questi strumenti venivano nascosti nei sacchi e in questo modo si faceva credere che le forze fossero state messe in fuga. Ecco spiegato il significato assunto da questa frase popolare che equivale a dire: tornarsene a casa senza aver concluso un’impresa, né ottenuto nulla di buono.
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Favria, 15.11.2020 Giorgio Cortese

Ogni giorno che vivo finché respiro, spero.

Le signorine ortensia.
Quando viene l’inverno poi, la signorine ortensia rosa ed azzurre perdono la loro chioma ma, attenzione, non rimangono spoglie come una qualunque pianta decidua. Certo sono ignude e soffrono terribilmente quali vittime designate dell’inverno crudele. Ecco allora se ne stanno lì, con i rami rigidi, offesissimi, ad aspettare la fine dell’inverno, con il primo sole, di poter generare rigogliose nuove gemme. Gemme ovviamente chiassose e turgide, impertinenti e vistose come nessun’altra nel mondo vegetale. Cara ortensia sei la mia preferita
Favria, 16.11.2020 Giorgio Cortese

Siamo un leggero soffio di vento in mezzo a una tempesta di emozioni. Abbiamo vita breve, ma in grado di viverla nell’intensità di un attimo.
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